L’offensiva su Mosul: possibili scenari dell’Iraq contemporaneo 2


 

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La campagna militare volta a liberare Mosul è uffialmente iniziata. Lunedì 17 Ottobre, l’esercito iracheno insieme ai peshmerga curdi iniziano la marcia su Mosul per liberarla dallo Stato Islamico. Mosul è la seconda città più grande dell’Iraq e l’ultimo grande avamposto nelle mani del Califfato. Essa è stata conquistata dagli uomini di Al Baghdadi nel giugno del 2014, che ne ha fatto una delle due capitali (insieme a Raqqa, in Siria) del sedicente Stato Islamico.

Fonti ufficiali sosterrebbero la presenza di circa 4,000 guerriglieri peshmerga che avanzano da Nord-Est fra villaggi limitrofi della città, con la copertura aerea della coalizione anti-Is a guida statunitense, mentre da sud proverrebbero circa 30.000 soldati appartenenti all’esercito iracheno, milizie sunnite e peshmerga, pronti a fronteggiare una cifra stimata tra i 4,000 e 8,000 miliziani dell’IS.[1]

 Alla campagna si aggiungono le forze speciali statunitensi vicine al fronte, al fine di fornire informazioni strategiche all’esercito iracheno. Infine si aggiungono anche le truppe dell’esercito turco che recentemente hanno favorito la liberazione dal califfato della città di Dabiq, città inneggiata nella dottrina dell’autoproclamato califfo come simbolo della battaglia finale tra musulmani e crociati.

Fonti militari statunitensi dichiarano che ci vorranno diverse settimane prima che la città possa essere liberata, per l’elevata presenza di civili, e per il fatto che i miliziani hanno avuto due anni di tempo per costruire le loro linee difensive, articolate in un sistema sofisticato di tunnel sotterranei.

Mosul presumibilmente cadrà, e ciò potrebbe segnare la fine dello Stato Islamico in Iraq in termini territoriali. Fino ad oggi infatti, i successi sul campo da parte della coalizione anti-Is in Iraq ha fatto perdere notevolmente terreno alle milizie del califfo. Dal Gennaio 2015 lo Stato islamico in Iraq ha infatti perso città importanti come Ramadi, Falluja e Tikrit.

Tuttavia, come per Aleppo in Siria, la caduta di Mosul non segnerà la fine delle ostilità nell’area, dal momento che non esiste un piano politico di pacificazione, e il conflitto è sempre più frammentato, con molteplici attori in campo.

In primo luogo è rilevante il fatto che il governo di Baghdad a maggioranza sciita, abbia negato alle milizie sciite appoggiate da Teheran di prendere parte alla campagna militare, dal  momento che Mosul è una città a maggioranza sunnita, e lo scontro settario potrebbe acuirsi maggiormente, ma non c’è alcuna garanzia che le truppe sciite non possano in un secondo momento fare il loro ingresso nella città.[2]

Nell’ovest dell’Iraq il timore è che, una volta sconfitto lo Stato Islamico, il governo a maggioranza sciita favorisca lo scontro settario, penalizzando le popolazioni sunnite ed estromettendole dagli organi di potere e ostacolandone l’economia.

Oggi infatti, i sunniti iracheni si sentono discriminati e perseguitati, e la “liberazione” dal califfato non migliorerà certo la situazione. Se qualche anno fa si trovavano stretti tra il Da’esh e le politiche settarie di Maliki, oggi si trovano schiacciati tra le ambizioni territoriali curde e politiche sciite da un lato, e la debolezza del governo centrale dall’altra. Non stupisce che il loro contributo alla sconfitta di Da’esh sia stato limitato e locale. I sunniti poi, sono politicamente divisi, disillusi dal governo centrale e oggetto di strumentalizzazioni esterne.[3]

Gli sciiti, maggioranza nel paese, hanno acquisito il potere attraverso elezioni regolari certificate dalla comunità internazionale e difficilmente lo condivideranno con i sunniti (che per inciso li hanno perseguitati e massacrati per decenni) nel modo auspicato da questi ultimi e dalla coalizione anti Is.[4]

Nel giro di un decennio i sunniti iracheni sono passati grazie all’introduzione della democrazia e delle libertà politiche, dalla condizione di èlite dominante (in particolare nella burocrazia e nelle Forze armate) a quella di minoranza sulla quale si è scaricato il pluriennale risentimento accumulato dalla maggioranza sciita e dai curdi per le efferatezze compiute ai loro danni da Saddam Hussein. I sunniti non hanno mai accettato questa degradazione e hanno condotto un’insurrezzione contro l’occupante statunitense e una campagna terroristica settaria contro gli sciiti, oggi entrambe condotte principalmente dall’Is.

Le politiche settarie, oltre che condotte dall’ex premier Maliki, sono state introdotte dall’occupante americano con la decisione di smobilitare le Forze armate e il partito Bath. Gli sciiti non hanno fatto altro che colmare questo vuoto di potere e adesso intedono mantenerlo, nonostante questo sia contestato da una parte consistente della minoranza sunnita e dai suoi principali sostenitori, Arabia Saudita e Qatar.

In questo contesto, alquanto complesso, l’Iran non acconsentirà che l’assetto in Iraq venga alterato sulla base delle rivendicazioni dei sunniti di cui lo Stato Islamico è sommariamente considerato unico portavoce.

I partiti e politici sunniti si accusano reciprocamente di corruzione, e cercano di accaparrarsi il controllo dei fondi per la ricostruzione delle aree liberate. Poi, a favorire competizioni interne concorrono le diverse agende di attori regionali come Arabia Saudita, Emirati, Turchia e Qatar, che appoggiano finanziariamente e politicamente diversi e opposti attori sunniti.

L’attuale governo del primo ministro al-Abadi, succeduto un anno fa ad al-Maliki ma proveniente dallo stesso partito (Da’wa), sta tentando di portare avanti un ambizioso programma di riforme interne come la riduzione dei privilegi, lotta alla corruzione, revisione della de-baatificazione e creazione di una Guardia Nazionale, che punta a recuperare anche quella componente della popolazione sunnita, non marginale, che non si riconosce nello Stato Islamico. Il problema è che il premier rimane osteggiato dai veti della “casta politica” in carica, oltre che ostaggio dei movimenti legati alle milizie sciite, che guardano ad Hizbullah libanese e ai pasdaran iraniani come modello ibrido politico-militare da imporre.

E’ quindi plausibile che, se anche Da’esh verrà sradicato, le politiche settarie del governo sciita sponsorizzate dall’Iran, favoriranno notevoli insurrezioni ed attentati in tutto il paese da parte della minoranza sunnita.

La seconda dinamica da considerare riguarda la questione curda, dove si mescolano sia dinamiche interne, che nazionali e regionali.

Sebbene lo Stato Islamico rappresenta il nemico comune per i peshmerga e l’esercito iracheno (a maggioranza sciita) si sono registrate alcune schermaglie tra le milizie curde e l’esercito regolare iracheno nelle aree liberate intorno a Kirkuk.

L’agenda politica del Kurdistan iracheno mira alla piena indipendenza territoriale da Baghdad. Ad oggi la regione ha imposto de facto una sua autonomia, ma più che le minacce di indipendenza a spaventare Baghdad sono le pretese territoriali su aree a popolazione mista e la gestione in proprio delle risorse petrolifere; paradossalmente, ormai il controllo curdo su Kirkuk è un problema secondario, considerato che le milizie curde si sono spinte ben oltre, sino ai sobborghi di Mosul stessa. A livello regionale, il Kurdistan ha una propria politica estera, caratterizzata da un forte legame politico ed economico con la Turchia.

Le truppe di Ankara sono ad oggi presenti in territorio iracheno, a nord di Mosul. Il presidente Erdogan ha ordinato che le truppe rimangano in territorio iracheno, violando la richiesta del governo iracheno di lasciare il territorio iracheno. Il piano di Ankara, come in Siria, sarebbe quello di creare una zona-cuscinetto per combattere i separatisti curdi del PKK che operano nel Kurdistan iracheno, sebbena la Turchia abbia rapporti positivi con il Governo Regionale Curdo che ha sede ad Erbil.

Il terzo e consistente nodo riguarda lo Stato Islamico. Le attuali sconfitte di Da’esh non ne preannunciano tuttavia l’imminente sconfitta o l’incombente scomparsa del califfato da Siria e Iraq, ma l’avvio di una trasformazione del gruppo, o per meglio dire un suo ritorno alle origini, che per larghi tratti è già in essere. Sotto la pressione dei raid della coalizione a guida Usa e la spinta costante delle milizie cude, arabe e siriache, il califfato è destinato a frammentarsi quanto prima, con territori probabilmente ancora governati dall’Is ma geograficamente non contigue. La catena di attentati perpetrati nel mese di Ramadan, con circa 393 attacchi diretti o ispirati dallo Stato Islamico dall’Iraq alla Turchia fino a Bangladesh e Arabia Saudita, rappresenta il primo chiaro indicatore di come il gruppo stia tornando alla sua originale caratterizzazione di movimento prettamente terrorista/insurrezionale, in grado questa volta di moltiplicare la portata dei propri attacchi grazie alla capacità intatta di far leva sulla miriade di sostenitori e affiliati che operano al di là dei suoi territori chiave.[5]

Inoltre molti territori di Siria ed Iraq rimangono altamente instabili, e senza valide e concrete alternative forze locali in grado di inserirsi nelle aree sottratte al controllo del gruppo e la mancanza di una tangibile agenda politica post-conflitto da parte delle potenze occidentali, renderà complessa la stabilizzazione di quei territori lasciandoli vulnerabili ai tentativi di ritorno dello Stato Islamico.

Infine, il conflitto settario che vede protagonisti Iran e Arabia Saudita rischia di aggravare tensioni religiose già profonde e di cui la narrativa dello Stato Islamico continua a nutrirsi, oltre ad aggravare conflitti, quale quello nello Yemen, sulle cui basi l’Is tenterà di costruire la propria presenza.

In conclusione, la campagna militare verso Mosul, rappresenta un passo importante per debellare territorialmente la presenza del califfato in territorio iracheno. Se ciò avverrà sarà alquanto complesso capire in che modo vengano ristabiliti gli equilibri.

Il conflitto in Sira ed Iraq è molto variegato in quanto esistono molteplici attori in campo, volti a perseguire i propri obiettivi, pertanto lo scenario della pacificazione tra due parti, paradigma convenzionale della maggior parte dei conflitti è sicuramente da escludere.

E’ invece plausibile che le varie relazioni bilaterali tra i vari attori nel conflitto possano evolversi e risolversi sia con accordi politici che con manifestazioni di potere consolidato nel tempo. Nel breve periodo la questione da considerare riguarda le varie fazioni curde e le loro relazioni con la Turchia da una parte, e il governo di Baghdad dal’altra. I curdi siriani controllano già una consistente porzione di territorio nel nor-est del paese, mentre i curdi iracheni si sono spinti fino a Kirkuk e contenderanno Mosul al governo di Baghdad. Se non verrà raggiunto un accordo, nuovi conflitti riguarderanno i curdi siriani opposti ad Ankara da un lato e curdi iracheni opposti a Baghdad dall’altro. Se invece un accordo territoriale verrà trovato, in termini di regioni autonome curde sia in Siria che in Iraq, nel breve periodo un’area del conflitto verrà stabilizzata.

Danilo Lo Coco

[1] P. McLeary, A. Rawnsley, “SitRep:Mosul Burns as Iraqi Forces Push Closer”, in “Foreign Policy”, October 17, 2016

[2] E. Simpson, “Mosul and Aleppo Are Full of Sound and Fury, Signifying Nothing, in “Foreign Policy”, October 17, 2016

[3] G. Parigi, “Iraq: Dopo Da’esh, il Diluvio?”, in “ISPI Commentary”, 24 Agosto 2016

[4] Carlos, “In Iraq, Washington e teheran restano agli antipodi”, in Limes 9/2015: “Le Guerre islamiche”, Settembre 2015.

[5] L. Carlino, “ISIS: Fine del Proto-Stato e ritorno alle origini”, in “ISPI Commentary, 24 Agosto 2016


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