Politiche di potenza e ambizioni territoriali in Medio Oriente



 

Le guerre – di diversa intensità – sono sempre state generatrici di mutamenti politici e smottamenti geopolitici. L’implosione ottomana ha mutato profondamente l’assetto balcanico e mediorientale ed oggi, ad un secolo di distanza, le contese post-ottomane sono più vive che mai. Uno spazio geopolitico poroso in cui il nazionalismo arabo non è riuscito a creare stabilità nel lungo termine e che vede in gioco superpotenze e potenze regionali (che alternano momenti di conflittualità ad acrobazie diplomatiche), insieme a forze locali che approfittano di questi “smottamenti” per provare a portare avanti le loro finalità politiche: è il caso ad esempio dei curdi che nel corso del conflitto internazionale siriano si sono ritagliati – armi in mano – uno spazio nel nord della Siria, con alleanze, convergenze e tatticismi anche spregiudicati (ma la politica internazionale è sempre stata spregiudicata). E’ utile aprire una breve parentesi a proposito della questione curda. Il Kurdistan fu strumento del confronto tra Regno Unito e Russia nella seconda parte del diciannovesimo secolo: siamo in pieno “Grande Gioco” in Asia Centrale e, come scrive Stefano Torelli, “sia per la Russia che per il Regno Unito il Kurdistan costituiva un’area importante per le rispettive ambizioni sull’Asia Minore” [1]. Nell’ultima fase della prima guerra mondiale, Londra provò a giocare la carta curda in ottica antiturca, instillando il “sogno dell’indipendenza”. Dopo le speranze del trattato di Sèvres (1920), il Kurdistan indipendente venne barattato con la pace con la Turchia kemalista, arrivando così al Trattato di Losanna (1923) – che sancì la frammentazione della comunità curda in diverse entità statuali. E’ inoltre importante ricordare che Francia e Gran Bretagna già con gli accordi segreti di Sykes-Picot (1916) si erano de facto spartite il Medio Oriente.

Nella situazione odierna, mutatis mutandis, gli Stati Uniti (ed in generale l’Occidente) hanno dato linfa in modo strumentale alle aspirazioni curde nel corso del conflitto contro l’IS. La Russia si è mossa con cautela: non è certamente ostile ai curdi (ha sempre spinto per inserirli nei negoziati di pace) e li vede come una carta da giocare se necessario in ottica antiturca – come è avvenuto dopo la crisi russo-turca causata dall’abbattimento del Su-24 – ma considera prioritario il mantenimento dell’intesa di massima raggiunta con Ankara (pur nell’incompatibilità delle agende geopolitiche dei due paesi). Inoltre un eccesso di aspirazioni nazionali curde non è ben visto dalla Siria di Assad e ovviamente neanche dall’Iran, entrambi partner di Mosca. La situazione geopolitica è certamente molto differente rispetto a quella del primo Novecento, eppure alcune analogie nelle dinamiche delle politiche di potenza è impossibile non notarle.

I porosi confini turco-siriani continuano a grondare sangue: la Turchia ha conquistato Afrin, distretto nord-occidentale siriano occupato dalle forze curde (scollegato dalle zone nord-orientali del Rojava curdo). Dopo l’operazione “Scudo dell’Eufrate” lanciata nel 2016 – soprattutto per fermare l’avanzata dei curdi siriani – la Turchia continua a concentrarsi sulla priorità anticurda dopo avere messo da parte gli storici dissapori con la Russia. Non mutano certamente le direttrici della politica estera turca, Erdogan ha deciso però di adattarla al multipolarismo mediorientale. Paradosso: i curdi siriani sono (erano?) i principali alleati degli Usa in Siria e la Turchia è una potenza militare della Nato. Il supporto statunitense all’YPG è stato chiaramente tattico mentre, come ha ben fatto notare Vittoria Federici in un contributo di luglio 2017, “i legami turco-americani sono parte di un’alleanza strategica che va ben oltre quel limitato proposito”[2]. Henri Barkey, in un articolo sulle relazioni tra Usa e curdi, ha opportunamente scritto che Washington adotta “un approccio rapsodico determinato da esigenze di Realpolitik, ragioni geopolitiche e militari, oltre che da impellenze domestiche ed elettorali” [3]. La crisi turco-americana avviatasi dopo il tentato golpe di luglio 2016 non ha mai messo in discussione, nonostante le pesanti accuse, i legami atlantici di Ankara; d’altra parte bisognerà vedere fino a dove Erdogan vorrà spingersi contro i curdi siriani e che genere di compromessi raggiungerà – e vorrà raggiungere – con Washington. I curdi siriani hanno confidato troppo nel supporto statunitense? Questo sarà il tempo a dircelo.

Dopo avere intrattenuto con Assad un rapporto di ‘reciproca tolleranza’ non belligerante (ma neppure amichevole), i curdi siriani si sono visti obbligati a convergere tatticamente con i governativi a febbraio; tuttavia è stato impossibile difendere Afrin dalla prorompente forza militare dei ribelli sostenuti da Ankara. L’Occidente ha commesso un errore madornale nel demonizzare oltremodo Assad (e la Russia) mentre santificava i “ribelli siriani”: gli stessi che sono entrati ad Afrin spalleggiati dalla Turchia. Come si è detto, il rapporto della Russia con i curdi è ambivalente (non certamente ostile) ma Mosca non è interessata ad ulteriori scontri o crisi dopo avere ottenuto una vittoria diplomatica in Siria contro chi voleva detronizzare Assad, Turchia in primis. La Russia ha fino ad ora tentato di svolgere un ruolo di mediazione tra le parti, provando a coinvolgere i curdi nei negoziati di pace. Peraltro il cambio di guardia alla Casa Bianca, con il falco Mike Pompeo al posto di Rex Tillerson come Segretario di Stato, pone non poche incognite sul futuro atteggiamento statunitense nei confronti dei diversi attori della regione.

La guerra fredda e il grande confronto tra due superpotenze permetteva di mantenere con più facilità lo status quo: le alleanze di certo cambiavano per cause diverse (mutamenti nella continuità come nella transizione Nasser-Sadat o rivoluzionari come in Iran); adesso però assistiamo ad una situazione “nuova” in cui ad una superpotenza declinante non si oppone un singolo contraltare geopolitico (ancor meno ideologico). La Turchia – componente della Nato – porta avanti una politica estera autonoma da quella statunitense; Russia e Iran sono potenze a tutti gli effetti “revisioniste” rispetto all’ordine nato nel 1989. Le ambizioni territoriali possono essere sia il prodotto che la causa di una guerra e – citando Edward Carr – si presenta una ciclica riproposizione della lotta tra potenze “soddisfatte e insoddisfatte”. Non è forse il caso di forzare eccessivamente la storia formulando analogie con la convulsa fase post-Versailles (a cui si riferiva Carr nel suo scritto – tanto interessante quanto controverso – del 1939) [4]: eppure dalla storia qualche lezione la si può prendere, per evitare, quantomeno, di strabuzzare gli occhi di fronte alla complessità della politica di potenza del presente; e anche per provare ad orientare le scelte di politica estera dei governi, ché in politica non v’è nulla di “scientifico” o predeterminato.

Com’era prevedibile, dopo la sconfitta militare dell’IS non è iniziata una nuova fase di riappacificazione e di ricostruzione. Al contrario, stanno venendo al pettine tutti i nodi delle contese politiche, settarie e geopolitiche e si prefigura una nuova fase di suddivisione della Siria in sfere di influenza. Si decidono i nuovi equilibri regionali, se mai ce ne saranno, e gli attori interessati sono disposti a giocarsi tutte le carte a loro disposizione (tra cui la questione curda), con acrobazie diplomatiche unite a politiche di potenza quando sono ritenute necessarie, in base alle priorità di ciascuno Stato: più o meno legittime o condivisibili, a seconda della prospettiva di chi le osserva.

Federico La Mattina

Note

[1] S. M. Torelli, Così ci inventammo il Kurdistan (e lo rifacciamo oggi), «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 7, 2017, pp. 9-16.

[2] V. Federici, Quanto è sostenibile il Rojava?, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 7, 2017, p. 107.

[3] H. J. Berkey, Il rapsodico approccio americano ai curdi, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 7, 2017, p. 133.

[4] E. H. Carr, The Twenty Years’ Crisis, 1919–1939: an Introduction to the Study of International Relations, London, Macmillan, 1939 (edizione rivista 1946).

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