Furio Jesi tra mito, ideologia e violenza.


 

Incontrare nei propri studi una figura come quella di Furio Jesi significa incontrare e misurarsi con ciò che è il mito. La sua figura di studioso, come si può evincere dalle sue opere, sarà sempre accostata all’universo mitico e sarà sempre focalizzata sul ruolo che il mito ha rivestito nel rapporto dell’individuo con la propria realtà, in termini di utilizzo che se ne fa. In questa sede ci occuperemo di evidenziare come nel pensiero dello studioso torinese il mito si articola e come esso possa rappresentare un polo da cui un’ideologia può strutturarsi secondo una manipolazione del passato e come, in termini culturali, esso possa anche diventare una necessità per le masse.

Il Novecento è stato il secolo delle ideologie e ha rappresentato un’epoca in cui le masse hanno sentito il bisogno di un mito, politico e culturale, che legittimasse determinate azioni e specifici processi di evoluzione della realtà. Casi emblematici lo sono stati il fascismo e il nazismo. Due totalitarismi che hanno strutturato parte delle loro componenti culturali partendo da un recupero della mitologia classica. George Mosse, nel suo potente e suggestivo studio La nazionalizzazione delle masse (1975), a proposito del rapporto tra mito e nazione tedesca dice: “ I miti, che costituivano la base della nuova consapevolezza nazionale di un passato sia tedesco sia classico, si ponevano al di fuori della corrente contemporanea della storia; avevano come obiettivo quello di unificare nuovamente il mondo e di restaurare, nella nazione ridotta in frantumi, un nuovo senso di comunione ” (p. 31). Questa parole erano volte ad una Germania che doveva rinascere dalla macerie del primo dopo-guerra. Il tema che però viene messo in risalto da Mosse è vicino a ciò che riguarda l’analisi che si vuole condurre in questa sede attraverso il rapporto di Furio Jesi con il mito. Quest’ultimo serve per rifondare una collettività che si riunisce nella condivisione di un’identità generata a partire da quel racconto mitico.

Attraverso Furio Jesi ci accorgiamo però che non sempre il mito è un qualcosa che ri-fonda un’identità mantenendo intatta la collettività di riferimento. Il mito è anche un processo attraverso cui manipolare la massa per portare avanti un processo di sacralizzazione di specifici simboli prescelti come ideali e funzionali ad un meccanismo psico-sociale che legittimi l’uomo e le sue azioni per giungere a delle finalità differenti dalla ri-fondazione mitico-identitaria. Vedremo più avanti come questa differenza interna al mito faccia del mito stesso un qualcosa di “bipolare”. Prima di tutto bisogna comprendere come nel pensiero dello studioso torinese venga definito il tema che vogliamo affrontare. Il mito, in Jesi, è:  “ […]una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto cuore misterioso, il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serve a molte cose, nel bene e nel male. E’ memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile del falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna della scuola, e che poi, talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi anche è sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella, innanzitutto, di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un eterno presente.” (Jesi: 2003, p. 26).

Come si evince dalla citazione precedente, in cui viene definita la doppia articolazione del mito di fronte alla realtà, la prima cosa a cui si deve fare riferimento sta nel fatto che esso, inteso come “un precedente e un esempio, non soltanto rispetto alle azioni (“sacre” o “profane”) dell’uomo, ma anche rispetto alla propria condizione” (Eliade 1996), si divide in un due tipologie: il mito “genuino” e il mito “tecnicizzato”. Una dicotomia nel mito, che Jesi acquisisce dal suo maestro ungherese Karol Kerènyi e che articolerà in base al suo studio. Due aspetti del mito che costituiscono la macchina mitologica e che risaltano non soltanto due tipologie concettuali di mito, ma sottolineano due finalità differenti di utilizzo del mito stesso da parte dell’uomo. Quando si parla di mito genuino, si sta facendo riferimento a quella tipologia in cui il mito non viene utilizzato da contesti culturali per finalità che lo deformino per giungere a forme di legittimazione di azioni presenti. Il mito genuino è un richiamo alla memoria di ciò che in illo tempore è accaduto e che ritorna per raccontare ed evidenziare la genesi culturale ed identitaria di un contesto. Per dirla nuovamente con alcune parole dello studioso: “Il flusso del mito genuino entro la psiche umana pone spontaneamente in evidenza alcune delle immagini che vi giacciono latenti e attribuisce loro una vitalità che, in realtà, è la loro prospettiva dell’inconscio” (Jesi: 1968, p. 36). Quando invece si parla di mito tecnicizzato si fa riferimento ad una vera e propria manipolazione del discorso mitico, per utilizzarlo con finalità e scopi del tutto differenti dall’intenzionalità primaria insita nel mito inteso come richiamo ad un esempio precedente che evidenzi una genesi e quindi enfatizzi una rifondazione identitaria. Mentre nella genuinità del mito vi è un richiamo alla collettività primordiale e si identifica una certa intenzionalità nel valorizzare la coscienza senza indebolimento di quella stessa collettività per mezzo di manipolazioni, nel tecnicizzare un mito tutto questo viene demolito. La coscienza, di fronte al mito tecnicizzato viene plasmata e manipolata per il fine ultimo insito in questo processo di tecnicizzazione. Si tratta di un processo in cui la coscienza diviene uno scenario in cui il “tecnocrate del mito” agisce e porta ad uno stato di sonno la massa. Nel processo culturale che vede tecnicizzare un mito, quel “senso di comunione” che abbiamo visto in  George Mosse  a proposito de ruolo del mito di fronte allo sfacelo di una nazione, perde per l’appunto quella genuinità che fa del mito un qualcosa con la funzione di far riaffiorare “un passato tanto remoto da poter essere identificato con un eterno presente” (Jesi: 1968, p. 37), un passato che vuole fungere da sintomo di una collettività accomunata nel sentire il rispetto verso l’altro, verso l’uomo-individuo. Quando questo aspetto cessa di alimentare il bisogno del mito allora quest’ultimo diventa soltanto un mezzo per giustificare comportamenti presenti deformati e viziati secondo le proprie logiche “conservatrici”. Far cenno al conservatorismo in questa sede si volge verso l’interesse finale di questa analisi, cioè al come un mito manipolato e plasmato può dunque creare una forma ideologica che sfoci nella violenza più assoluta. In Cultura di destra (2011), l’autore dedica, nel primo capitolo, un paragrafo alla paura dell’ebreo durante il regime nazista. Jesi, qui, vuole evidenziare come il mito della razza diventa una forma di mito tecnicizzato utile ad Hitler per forgiare un’ideologia cosiddetta “della morte”. L’ebreo rappresentava, secondo il discorso biblico, il popolo eletto e dunque se ne aveva paura in quanto rappresentava una minaccia per l’unica vera razza degna, quella ariana. L’ebreo andava ucciso perché minacciava, nell’ottica mistificante della logica del Reich, l’unico vero popolo: quello tedesco.

In questa sede non si vuole parlare dell’Olocausto per trarne delle conclusioni, ma il richiamo alle forme di legittimazione che il Nazismo ha utilizzato per sue finalità rappresenta un esempio crudo e concreto in cui il mito tecnicizzato diventa pericoloso e fatale per le masse. Tale forma di mito, nell’ottica di Jesi, diventa una tipologia accomunabile in particolar modo alla cultura di destra. Emblematiche, per l’appunto, sono le sue parole in un’intervista del ’79 in cui gli si chiede cosa sia la cultura di destra: “la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo più utile, in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola”.

Maurilio Ginex

 

Bibliografia:

– M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
– F. Jesi, Cultura di destra, Nottetempo, Milano, 2011.
– F. Jesi, Germania segreta, Nottetempo, Milano, 2018.
– F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968.
– F. Jesi, Mito, Mondadori, Milano, 1980.
– G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, 1975.

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