Sharam Khosravi e “Io sono confine”: un testo sempre attuale



L’autore del testo è Shahkram Khosravi, un professore di antropologia sociale presso l’Università di Stoccolma, iraniano di origine e svedese naturalizzato. Nel suo testo, partendo da un’analisi che mette in evidenza il violento ruolo separatista che gioca il confine, riesce ad analizzare e sviscerare tutte le contraddizioni e gli aspetti negativi della questione su cui si dipana la morfologia di un fenomeno negativamente identitario per i nostri tempi. Parla di chi emigra e di chi, nonostante la permanenza in un contesto in cui si ha asilo politico, continua a vivere la controversa e tragica condizione liminale dell’immigrato e del diverso. Viene affrontato il tema dell’immigrazione attraverso il modello metodologico più efficace e più attinente alla realtà che si sceglie di indagare, il metodo etnografico. Per tale ragione, la sua analisi complessa del fenomeno presenta uno svolgimento lineare che comincia con racconti e aneddoti della sua vita personale, per continuare con una serie di interviste strutturate seguite da analisi ponderate della questione migratoria. Uno dei temi più manifesti risulta essere quello dell’origine di un individuo, concetto che rispecchia un elemento propedeutico per comprendere come si articola il fenomeno analizzato dall’autore.

Come suggerisce Abdelmalek Sayad (2002, 44): «Ogni studio dei fenomeni migratori che dimentichi le condizioni d’origine degli emigrati si condanna a offrire del fenomeno migratorio solo una visione al contempo parziale ed etnocentrica». L’autore lascia ampio spazio alle sue origini, descrivendo come sin da ragazzino, quando si trovava in Iran, abbia vissuto direttamente e in prima persona la violenza sradicante del diventare un confine. Nel 1986, dopo il liceo, gli viene richiesto di arruolarsi, ma per scelta non lo fece. Qui iniziò il calvario migratorio. Fu costretto a diventare un deviante di fronte al sistema della sua Nazione, un ricercato a casa propria, un «migrante irregolare» (Khosravi 2019, 89). Si sofferma lungamente su questo aspetto e lo fa per evidenziare come, nel suo specifico caso di vita, il confine sia stato una costante che ha reso la sua esistenza un qualcosa di continuamente controllato, plasmandola sotto l’egida di una malsana e tossica velleità verso l’omogeneità culturale.

Ma oggi il confine cosa rappresenta? cosa significa la parola confine in una società globalizzata, che si è professa come multiculturale, ma che in realtà manipola le coscienze e le spinge verso un inconsapevole dispotismo assimilazionista? L’autore risponde non soltanto a questi quesiti, ma sposta il baricentro dell’attenzione sul fatto che questo fenomeno, oltre a basarsi sulla locazione fisica, si basa anche su chi oggi rappresenta un confine. Procediamo per passaggi. Il confine è un limite, esso rappresenta la cosiddetta zona liminale (Turner 1972), in cui tutto è lecito e fuori dalle logiche degli schemi convenzionali. Nel confine, però, accade il disumano e in esso si sfrutta la necessità del povero individuo che si ritrova costretto a dover varcare una frontiera. È questo il caso di uno dei capitoli più duri del testo, il secondo, intitolato «Guardie e genti di frontiera» (Khosravi 2019, 41), con un particolare riferimento ai due paragrafi intitolati «Deumanizzazione di chi viola i confini» (Khosravi 2019, 58) e «Confini, genere e sessualità» (Khosravi 2019, 79). In questo capitolo viene messo in evidenza come al confine l’individuo che sta emigrando – che sia donna, uomo o bambino – viene privato della sua condizione di umano. Il diritto naturale smette di avere un ruolo. E la donna viene disumanizzata da una “prassi sistematica” (Khosravi 2019, 79), quella dello stupro, uno degli aspetti più rilevanti del fenomeno migratorio e su cui si tende a porre meno attenzione: «le frontiere non sono soltanto luoghi di pregiudizio razziale ma anche e soprattutto di discriminazione sessuale e di genere» (Khosravi 2019, 79). Nello stupro si nota come si dipana la reale identità del confine, ovvero un qualcosa su cui si sviluppa la struttura tripartita dei cosiddetti “riti di passaggio” (Van Gennep, 2012). Questi riti sono costituiti da tre momenti interni: la separazione, il margine e la riaggregazione. Il migrante è tale perché le condizioni sociali, politiche ed economiche della propria Nazione sono sfavorevoli per la sua incolumità, dunque, procede con il primo momento del rito di passaggio, la separazione dal proprio contesto di origine[1]. In seguito, vi è la condizione di margine, la più brutale. Essa purtroppo rappresenta l’incognita reale di un destino iniziato con la violenza. L’autore evidenzia non soltanto l’atrocità dello stupro come atto propedeutico per passare la frontiera, ma sottolinea come il carceriere violentatore rimane impunito di fronte al corpo inerme della donna capitata sotto le sue mani. Una violenza che nella liminalità del confine si normalizza tra l’assenza di un diritto naturale dell’uomo e la totale assenza di un diritto positivo che dovrebbe rappresentare l’unica via lecita per ripristinare l’ordine perduto. In seguito, attraverso la disumanizzazione dell’attraversamento del confine vi è il terzo momento del rito di passaggio, ovvero, la riaggregazione. In questo ultimo aspetto, la frontiera rende l’individuo stesso un confine. Cosa significa per un migrante il riaggregarsi in un nuovo contesto sociale che gli permette di avere l’asilo? A questo quesito corrisponde un’altra parte del testo che percorre la vita personale e l’esperienza concreta dell’autore: cioè il suo impatto con al Svezia. La Nazione assume il modello multiculturale, ma l’enorme ingrandimento e l’enorme variazione dei flussi migratori, a partire dal Duemila, continuando ad ampliarsi tutt’ora, ha portato un sistema politico e sociale come quello svedese a trovarsi in difficoltà di fronte alla questione. Su questa scia l’autore evidenzia il come «i migranti pagano sulla loro pelle il prezzo delle politiche di ridefinizione dei confini: sono il sacrificio umano offerto ai rituali di rinegoziazione delle frontiere» (Khosravi 2019, 144). Il migrante diventa il dispositivo foucaultiano su cui si staglia tutto il significato di un’egemonia culturale che rende il corpo del suddetto un “corpo docile e utile” (Foucault 1977) in quanto manipolabile secondo il proprio volere. Un’egemonia che viene costruita sulla menzogna dell’accoglienza e che trasforma il confine in un meccanismo di vessazione fisica, etnica e psicologica dell’individuo. Un ragionamento che nel caso dell’autore diventa realtà vissuta e concreta.

Nonostante questo calvario sia iniziato nel suo paese di origine e abbia concluso il suo divenire in una meta come la Svezia, anche in quest’ultima l’autore sperimenterà sulla nuda pelle tutta la violenza di un «feticismo» che l’Occidente manifesta nei confronti dei confini e di chi si ritrova di fronte ad essi o, per l’appunto, contro di essi.[2] Dunque, nella riaggregazione dell’ultimo momento di un rito di passaggio come quello della migrazione, si rende palese la durezza del concetto di «doppia-assenza» (Sayad 2002) in cui – un migrante – sarà per sempre un apolide che vivrà l’assenza di fronte alla sua origine, ormai appartenente al passato, e l’assenza di fronte ad un contesto che ti accoglie, ma che continua a percepirti come un altro da sé.

Il testo è un racconto reale e crudo di un fenomeno che oggi rappresenta anche un business, in cui il denaro, tra l’innalzamento pubblico di muri che separano e i trafficanti di esseri umani onnipresenti alle frontiere, mercifica l’individuo e il suo destino. Questo è un aspetto determinante del fenomeno in quanto ne attesta la complessità che oggi ha raggiunto. Probabilmente, le politiche adoperate per gestire la questione migratoria nel nostro tempo, che ad oggi ha registrato innumerevoli sfilze di vittime, hanno soltanto reso il fenomeno un qualcosa di più pericoloso e hanno reso fattuale e concreto l’odio razziale verso chi viene percepito come diverso. Non è un caso che l’autore si rifaccia a figure come Walter Benjamin, la cui tragica morte per suicidio avvenne a ridosso di un confine, per sfuggire al Nazismo che lo aveva denaturalizzato. Esempi come Benjamin servono all’autore per sensibilizzare gli individui alla memoria, cioè un qualcosa la cui potenza mitica ha il sacro ruolo di rievocare i valori perduti.

Anche se il testo è la narrazione degli sconfitti e della violenza che i sistemi sociali chiusi riversano sul diverso, esso assume su di sé una duplice funzione in quanto ha anche il potere di smuovere l’individuo verso un processo di auto-coscienza che si instaura attraverso una consapevolezza del rapporto con l’altro. Un etnocentrismo critico (De Martino 2007) che porti l’individuo occidentale ad una riflessione su di sé, a criticarsi per l’appunto, svestendosi della sua visione monotematica e rendendosi utile per il cosiddetto diverso. L’altro è una risorsa e non una minaccia. In questo senso, il testo diventa un monito per il mondo e un paradigma utile per interpretarlo. Esso assume un’efficacia simbolica dal sapore levi-straussiano, in quanto è il contesto-Mondo in cui nasciamo e viviamo che rende questo testo un’opera il cui significato continua a significare e il cui contenuto resta insuperato e difficile da storicizzare.

Maurilio Ginex

Bibliografia:
– Appadurai A., Modernità in polvere, Raffele Cortina Editore, Milano, 2012.
– Benjamin W., Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1985.
– Foucault M., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1977.
– Lanternari V., L’incivilimento dei barbari, Dedalo, Bari, 2007.
– Sayad A., La doppia assenza, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2002.
– Turner V., Il processo rituale, Morcelliana, Brescia, 1972.
– Van Gennep A., I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.


[1] Per tale motivazione, in principio al discorso, si è fatto riferimento al concetto sull’origine espresso da Sayad.

[2] Va ricordato che l’autore si sofferma particolarmente sulla descrizione di due esperienze vissute una volta approdato in Svezia. La prima riguarda un campo di detenzione oltre il circolo polare artico, su cui si dipanano tutte quelle dinamiche di repressione che esempi come la storia d’Europa hanno mostrato all’umanità; la seconda riguarda la storia di un militante anti-immigranti il cui nome è Lasemanner.

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