Essere o non essere. L’Unione Europea e il suo futuro


La Conferenza sul futuro dell’Unione Europea è un appuntamento dirimente. L’UE in più di un’occasione ha dimostrato di non riuscire a mettere in pratica le importanti risorse (hard e soft) di cui dispone e ha subito passivamente alcuni sviluppi internazionali intorno a sé, agendo con ritardo e, a volte, in maniera solo parziale. Il problema risiede nella sua struttura, prevalentemente guidata dal principio del consenso, che obbliga alla ricerca del compromesso fra gli Stati membri. La risposta non può né deve essere quella nazionalistica, bensì quella federalistica, come sostiene Piketty. È tempo per l’Europa di dare forza alle proprie priorità e rinvigorire il processo di integrazione, approfondendolo. È tempo di costruire una nuova Unione.

 

Quale Unione Europea?

L’Unione Europea si trova a un bivio della sua storia, nonché di quella mondiale, che richiede capacità di decidere e di agire in modo compiuto e rapido. Tutto questo, però, necessita di una precondizione strutturale: auto-determinarsi.

Da sempre l’UE si è mostrata come un Giano bifronte: da un lato, l’Europa normativa e ideale che si basa sul rispetto dei diritti umani e sulle libertà fondamentali, come propugnavano fin dalle origini i suoi grandi Padri; dall’altro, l’Europa pragmatica e realista che ha come principale obiettivo quello di mantenere la stabilità e mettere d’accordo tutte quelle tessere che ne compongono il mosaico, ossia gli Stati membri. Pragmatismo contro normativismo. L’utilizzo della preposizione impropria avversativa non è casuale, giacché queste due tendenze interne all’UE non convivono, anzi confliggono e inficiano negativamente nei vari ambiti di espressione (storicamente la politica estera, ma più recentemente la pandemia da Covid-19 ha fatto emergere ulteriori lacune), costringendo l’UE a una sorta di paralisi, o quanto meno a compromessi al ribasso. Negli anni più recenti gli esempi non faticano a emergere: il caos in Libia ha visto una genesi negli Stati europei stessi, i quali, però, sono intervenuti in quanto soggetti sovrani e non appartenenti all’edificio comunitario; o la proposta americana di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme – con relative conseguenze politiche e diplomatiche – rispetto a cui l’allora Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini si è espressa contraria, laddove una serie di Stati membri[1] hanno votato favorevolmente in sede ONU[2]; o ancora, le difficoltà nel trovare un accordo comune in ambito di intervento contro le conseguenze socioeconomiche derivanti dall’attuale situazione sanitaria.

Date le circostanze, è necessario per l’UE riflettere su quale sia il ruolo che può e vuole avere nel nuovo sistema internazionale che andrà delineandosi nei prossimi anni. Il momento non potrebbe essere migliore, in ragione dello spartiacque rappresentato dalla pandemia. Ciò richiede una reale e aperta riflessione, pena l’indebolimento dell’Unione. Come insegna Piketty, nulla è dato o naturale, bensì periodicamente ci si trova dinnanzi a specifiche biforcazioni rispetto alle quali il percorso intrapreso altro non è che il frutto di determinate scelte politiche e ideologiche che influenzano l’azione.[3] L’UE stessa è un esempio di questa massima, con la propria storia di integrazione e pace interna dal 1945 in poi, in un continente fino a quel momento periodicamente attraversato da conflitti.

Paralisi europea

È possibile affermare che il processo di integrazione abbia condotto a un miglioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione europea? Sicuramente sì. Le condizioni di vita della popolazione europea sono significativamente migliorate anche grazie alla pace tra i vari Paesi ed è innegabile che molti di quelli prima esterni alla Comunità hanno richiesto di aderirvi appena è stato possibile, proprio in ragione dei vantaggi a ciò collegati (su tutti, quelli economici e commerciali). È possibile, invece, sostenere che l’UE sia in grado di resistere e mantenere un ruolo di rilievo nel panorama internazionale, rimanendo ancorata alla struttura attuale? La risposta non è così semplice e immediata. Come illustra Andrew Moravcsik[4] in un suo articolo del 2017 sulla rivista Foreign Affairs, l’UE è uno dei mercati più floridi e delle regioni più ricche al mondo, ha un importante peso internazionale – ad esempio in termini di capacità di imporre sanzioni ed è prima per finanziamento al bilancio delle Nazioni Unite – ed è seconda solo agli USA per quanto concerne il bilancio alla difesa.[5] Tuttavia, in più occasioni ha dimostrato qualche lacuna, oltre a presentare incoerenze interne che ne minano la capacità risolutiva nella sua proiezione esterna. Per tali motivi, prosegue l’autore, se non percepiamo la potenza europea è per una distorsione prospettica: siamo abituati a ragionare in termini stato-centrici e questo ci impedisce di valorizzare realmente la forza dell’Europa unita. In realtà, come afferma Sonia Lucarelli[6], non è tanto una questione di risorse disponibili, quanto di applicazione di esse per fini politici ed è su questo iato tra risorse di potere e capacità di utilizzarle a fini politici collettivi che si gioca la partita del ruolo e del futuro dell’Unione.[7]

Tali difficoltà sono riconducibili a questioni di carattere diverso, ma ce ne sono due che risultano maggiormente dirimenti anche perché vicendevolmente intrecciate: l’assetto istituzionale e il processo. Con il primo termine ci si riferisce al fatto che, mentre alcuni ambiti (come quello commerciale) caratterizzati da un certo grado di integrazione – dove, ad esempio, vige il principio della maggioranza qualificata e la Commissione ha un maggior peso – permettono di prendere scelte in maniera più semplice e incisiva, altri (come la politica estera o migratoria) sono caratterizzati dal principio del consenso, in cui ogni membro ha potenzialmente potere di veto rispetto alle decisioni che lo trovano in disaccordo.[8] Questa caratteristica viene esacerbata nel momento in cui i partecipanti sono un numero sempre crescente e maggiore. Quest’ultima parte si intreccia con l’altro concetto, ossia il processo. L’UE non ha una definizione fissa né in termini funzionali né in termini geografici, semmai si trova in uno stato sempre evolutivo ed esposto a cambiamenti e trasformazioni. Questo processo si riflette direttamente sulle decisioni da adottare, poiché ogni decisione viene sempre ponderata considerando le conseguenze future in termini di integrazione e raggiungimento dei traguardi.[9] Rispetto a ciò, anche le modalità dell’allargamento hanno influenzato la situazione attuale. Un allargamento precipuamente economico e meno marcatamente politico ha fatto sì che il fenomeno di backsliding democratico[10] avvenuto in alcuni Paesi – come quelli del cosiddetto Blocco di Visegrád – abbia condotto a una coabitazione tra Paesi genuinamente democratici e che esprimono i principi cardine europei, con altri che si schierano contro alcuni di quegli stessi principi (ad esempio, libertà di stampa e diritti umani). Queste continue tensioni impediscono all’UE di esprimere completamente tutte le risorse di cui dispone e di far valere la propria posizione nel contesto internazionale. Esempio plastico è la questione migratoria – tra le priorità della nuova Commissione – che vede una ormai consolidata esternalizzazione della gestione ad attori, come la Libia, che in termini di rispetto dei diritti umani mostrano enormi limiti[11]; tuttavia, l’attuale configurazione europea obbliga – eccezion fatta per Frontex[12] – a una gestione consensuale del tema, poiché l’obiettivo principale è il mantenimento dell’unità all’interno, facendo prevalere questo su tutto il resto, con il risultato di dare risposte solo parziali.[13]

Di questa paralisi ne risente anche dinnanzi alla propria opinione pubblica, la quale, però, se da un lato, non mostra un grande entusiasmo per l’UE (solo il 41% ne ha un’immagine positiva)[14], dall’altro, auspica un cambio di passo rispetto alla forma attuale (59%).[15]

Per una nuova Europa

Come detto inizialmente, il futuro non è inevitabile e le traiettorie politiche da intraprendere sono sempre frutto di determinate scelte politiche e ideologiche. Un’Europa a ventisette inevitabilmente porta con sé e amplifica i problemi istituzionali e di processo prima evidenziati. L’Europa a geometria variabile è già una realtà di fatto (non tutti gli Stati membri aderiscono all’Accordo di Schengen) e quindi non è impavido progettare una nuova Europa che porti seriamente a un netto cambio di passo. Ciò va declinato in due distinte direzioni, ma in un certo senso interconnesse: cosa essere e come fare. La prima questione tocca direttamente le priorità dell’UE. L’attuale Commissione già nel 2019 ha fissato le proprie priorità per il futuro[16]. La sopravvenuta pandemia globale e la corrente situazione internazionale, segnando un passaggio da un prima a un dopo, danno maggiore vigore a quelle priorità e rappresentano una fondamentale opportunità per definire con ancora più chiarezza e risolutezza i nuovi principali interessi. In tal senso, la conferenza sul futuro dell’Unione è un’opportunità da non sprecare.

La crisi attuale ha dimostrato e continua a dimostrare l’importanza della solidarietà e della cooperazione, nonché della dimensione sociale e socioeconomica; ha esacerbato le difficoltà di alcune categorie e ha permesso in alcuni contesti l’aggravarsi di situazioni già fragili. Serve un’Europa che si opponga alla deriva nazional-populistica della post-normatività e della democrazia illiberale[17] con un serio ripensamento della propria struttura economico-sociale, che sanzioni pesantemente violazioni e omissioni ove avvengano al proprio interno, rimettendo in discussione l’idea che in nome della sovranità nazionale ogni violazione diventi la nuova norma.[18] In certi contesti – Polonia e Ungheria su tutti – si assiste a talune violazioni che risultano antitetiche con quanto propugnato dalla stessa Commissione Europea, definibile come European way of life, ossia l’insieme dei valori che hanno segnato la nascita della Comunità Europea.[19]Le differenze risiedono anche in altri ambiti: dalla disarmonia in ambito fiscale o salariale alla gestione del fenomeno migratorio e d’asilo, fino alla postura in politica estera. Per ragioni spaziali, questa non può essere la sede per un’approfondita analisi di tutti queste situazioni, tuttavia ciò che è importante sottolineare è che ognuna concorre a creare asimmetrie rilevanti, le quali non sono risolvibili facilmente – proprio in ragione dei problemi istituzionale e di processo poc’anzi evidenziati – conducendo a una discrasia tra ciò che viene affermato in sede dichiarativa e ciò che effettivamente viene messo in atto al fine di raggiungere quanto propugnato.

È in questo solco che si inserisce l’altra dimensione: la struttura necessaria per fronteggiare tutte queste sfide. Certe tematiche non possono essere affrontate da un singolo Stato membro, sia per ragioni di risorse che di peso politico, economico e geopolitico. L’unica soluzione possibile è quella in prospettiva europea. La trappola nazional-populistica che conduce all’atomizzazione delle azioni, se non, in certi casi, alla contrapposizione degli interessi non può essere la soluzione.

Semmai, è necessario andare nel senso diametralmente opposto, alla ricerca di un’integrazione più approfondita. È necessario che alcuni Stati decidano per una reale ed effettiva integrazione che metta in comune non solo la dimensione monetaria, ma l’intero sistema politico, al fine di giungere a quello che Piketty definisce social-federalismo[20], ossia un progetto avente come pilastri l’internazionalismo e il federalismo democratico per promuovere i valori e gli obiettivi che contraddistinguono la cosiddetta identità europea, con una struttura che garantisca un più efficace dispiegamento di forze – due esempi potrebbero essere la creazione di un’assemblea legislativa sovranazionale, con maggiori poteri rispetto all’attuale Parlamento Europeo, composta da membri provenienti sia dai Parlamenti nazionali sia da quello Europeo[21]oppure con liste transnazionali che sottraggano le campagne elettorali europee ai parlamenti nazionali. Nel progettare tutto ciò bisogna comunque avere i piedi ben piantati in terra, con la consapevolezza che quegli attori solitamente gelosi della propria sovranità e riluttanti rispetto alla cessione di porzioni di essa non accetteranno placidamente tale progetto. Per questo è necessario agire in modo graduale, ma deciso – ad esempio, ancora, sui Trattati, estendendo ad altri settori il principio della maggioranza qualificata in seno al Consiglio, o cominciando il progetto integrativo da un nucleo ristretto di Stati, per poi estendersi. L’idea di fondo, comunque, è e dovrà essere quella di creare finalmente uno spazio democratico transnazionale, imprimendo quel cambio di rotta utile a garantire all’UE una maggiore forza decisionale e d’azione. Una soluzione di questo tipo pone sicuramente importanti sfide e richiede un’iniziativa risoluta e non parziale, per evitare problemi futuri.

Forse tutto questo può sembrare utopistico, ma ne va del futuro della stessa UE, sia all’interno del sistema internazionale, sia in termini di credibilità di fronte alla propria opinione pubblica.

Questo preciso momento storico richiede che l’UE adotti scelte coraggiose e risolute per non soccombere e tradire quanto sognato da molti in quasi 70 anni di vita.

 

Luca Bennati

 

 

Bibliografia

 

 

  • Bermeo Nancy, On Democratic Backsliding, in Journal of Democracy, anno 27, n° 1, gennaio 2016, pp. 5-19.

 

 

 

  • Lucarelli Sonia, L’Unione Europea nel Mondo: perché l’UE non può essere la grande potenza inscritta nei numeri in Alessandro Colombo & Paolo Magri in “Sempre più un gioco per grandi. E l’Europa?”, Rapporto ISPI 2018, pp. 147-160.

 

  • Manifesto per la democratizzazione dell’Europa (Manifeste pour la démocratisation de l’Europe). Disponibile a: http://www.tdem.eu

 

 

 

  • Piketty Thomas. Capitale e Ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020.

 

  • Zakaria Fareed, The Rise of Illiberal Democracy. in Foreign Affairs, anno 76, n° 6, 76:6, novembre-dicembre 1997, pp. 22-43.

 


 

[1] Croazia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania e Ungheria.

[2] Eloisa Gallinario, “UE: Gerusalemme, l’Europa non è unita neanche stavolta”, Affari Internazionali, 31 dicembre 2017.

[3] Thomas Piketty, 2020, Capitale e Ideologia, La nave di Teseo.

[4] Andrew Moravcsik è Professore di Politics and International Affairs presso la Princeton University.

[5] Andrew Moravcsik, “Europe Is Still a Superpower”, Foreign Affairs Magazine, 13 aprile 2017.

[6] Sonia Lucarelli è Professoressa ordinaria presso l’Università di Bologna e membro del Consiglio direttivo del Forum per i problemi della pace e della guerra e dell’Istituto Affari internazionali.

[7] Sonia Lucarelli (2018), L’Unione Europea nel mondo: perché l’UE non può essere la grande potenza inscritta nei numeri in Alessandro Colombo & Paolo Magri Sempre più un gioco per grandi. E l’Europa?, Rapporto ISPI 2018, p. 149.

[8] Sonia Lucarelli, op. cit., p. 149.

[9] Sonia Lucarelli, op. cit., p. 151.

[10] Per un approfondimento del concetto si veda Nancy Bermeo (2016), On Democratic Backsliding, Journal of Democracy, 27:1, pp. 5-19.

[11] Per un approfondimento si veda Amnesty International, “Lybia’s Dark Web of Collusion. Abuses Towards Europe-Bound Refugees and Migrants”, 2017.

[12] Agenzia europea per la guardia di frontiera e di costiera, disponibile a: https://frontex.europa.eu/it/.

[13] L’accordo di Malta siglato nel settembre 2019 (con la partecipazione di Francia, Germania, Italia e Malta e l’allora presidenza finlandese di turno del Consiglio UE), tra le altre cose, non stabilisce quote obbligatorie di ricollocamento dei migranti; mantiene il principio della volontarietà sia nell’adesione che nella messa a disposizione del porto; infine, disciplina gli arrivi di persone salvate da navi delle ONG o mezzi militari, escludendo gli arrivi autonomi. Per maggiori informazioni si veda: http://www.cir-onlus.org/wp-content/uploads/2019/10/Accordo-Malta-Scheda-tecnica.pdf.

[14] Parlamento Europeo, “Uncertainty/Eu/Hope. Public Opinion In Times Of Covid-19. Third Round”, ottobre 2020.

[15] Il dato è così ripartito: il 38% è a favore, ma non nello sviluppo assunto finora, mentre il 21% sono piuttosto scettici, ma potrebbero cambiare idea in caso di riforma radicale. Dati tratti da Parlamento Europeo, “Uncertainty/Eu/Hope. Public Opinion In Times Of Covid-19. Third Round”, ottobre 2020.

[16] Per maggiori dettagli si veda: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024_it.

[17] Concetto introdotto per la prima volta da Fareed Zakaria. Per un approfondimento si veda Fareed Zakaria (1997) The Rise of Illiberal Democracy, Foreign Affairs, 76:6, pp. 22-43.

[18] Sonia Lucarelli, op. cit., p. 160.

[19] Si veda, nello specifico, “Promoting our European way of life” della Commissione Europea, disponibile a: https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/promoting-our-european-way-life_it.

[20] Thomas Piketty, op. cit., p. 1008. Inoltre, si consulti anche il “Manifesto per la democratizzazione dell’Europa”. Disponibile a: http://www.tdem.eu.

[21] Come sostiene lo stesso Piketty in Thomas Piketty, op. cit., pp. 1013-1014.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *