116 giorni di Trump, il commento dell’Ambasciatore Sanguini


 

 

 

 

“Xenofobo, islamofobo, incompetente, isolazionista, protezionista, bizzoso, spregiudicato, amico dei dittatori”.

Sono solo alcuni degli epiteti che hanno stigmatizzato il Trump della campagna elettorale. Epiteti certamente giustificati. Al punto da indurre qualche osservatore a domandarsi se il suo linguaggio e i suoi atti non fossero stati almeno in parte ricercati dallo stesso interessato.

Il suo esordio da Presidente sembrava confermare quel giudizio impietoso e annunciare al mondo che alla Casa Bianca fosse arrivato un vero e proprio “cigno nero” nel duplice senso della negatività e della imprevedibilità: con il bando sugli immigrati da paesi islamici, col muro con il Messico e il corredo del rinvio a giudizio del NAFTA, con l’ Obamacare, etc.. e con la prospettiva di una presidenza destinata ad essere lastricata da una preoccupante riga rossa su tutto ciò che Trump avrebbe detto e fatto.

Qualcosa però è cambiato; qualcosa, intendiamoci, non più di tanto, ma che merita di essere registrato: sul versante interno, soprattutto nel suo staff e nelle Agenzie, dal ridimensionamento di Bennon all’ingaggio di McMaster quale Consigliere per la Sicurezza Nazionale al siluramento del Direttore dello F.B.I., etc. E soprattutto in politica estera, dal 7 aprile scorso, quando Donald Trump non twittò, ma pronunciò un inedito messaggio, da vero Capo di Stato, rivolto al mondo forse più che agli stessi Stati Uniti per annunciare che aveva ordinato un attacco militare contro Bashar al Assad, reo della strage di Khan Sheikhoun dove avevano trovato la morte per gas tossici 58 siriani.

Poco importa che Trump avesse voluto marcare una secca discontinuità con l’Obama che nel 2013 non aveva invece dato corso all’attacco minacciato per il caso in cui Bashar avesse usato l’arma chimica, violando la famosa “linea rossa”; ovvero che fosse stato effettivamente mosso dal disgusto provocato in lui da quell’ignobile atto, di cui peraltro era ancora da dimostrare la responsabilità; ovvero le due cose messe assieme e altre ancora.


The guided-missile destroyer USS Porter (DDG 78) conducts strike operations while in the Mediterranean Sea, April 7, 2017. The US has carried out a missile attack against an air base in Syria in response to a suspected chemical weapons attack on Khan Sheikhoun rebel-held town. The Pentagon said 59 Tomahawk cruise missiles were fired at 04:40 Syrian time (01:40 GMT) from USS Porter and USS Ross destroyers in the eastern Mediterranean. Photo by US Navy via ABACAPRESS.COM


Importa, in questa sede, che Trump aveva compiuto un gesto forte e imprevisto, nel merito e nel metodo: perché aveva fatto ricorso alle armi per una causa “morale” a lui apparentemente estranea e per di più contro un personaggio come Bashar al Assad al quale aveva riservato fino ad allora espressioni di simpatia, anche perché protetto da Putin; perché aveva avvisato tutti i potenziali interessati, ivi compreso lo stesso Putin, anche ad evitare temibili danni collaterali visto che in quella base erano presenti aerei e personale russi; perchè l’attacco era avvenuto, non casualmente, all’inizio della visita di Xi Jinping, Presidente di quella Cina contro la quale si era scagliato con veemenza nel corso della sua campagna elettorale, ma che in quel momento poteva risultare utile sollecitare obliquamente ad intervenire sul Presidente coreano impegnato in una improbabile, ma comunque temibile, minaccia proto-nucleare.

E qui abbiamo un’altra decisione imprevista da parte di Trump: da un lato, rispondere senz’esitazione, e muscolarmente, alle minacce Presidente nord-coreano Kim Jong -Un, sia in mare (portaerei, esercitazioni congiunte con Corea del sud) sia sulla terraferma sud coreana (sistema antimissile); dall’altra, di lanciare a quest’ultimo un sorprendente segnale di disponibilità ad incontrarlo, in un apparente gioco di mosse militari-politico-diplomatiche finalizzate a misurare il terreno di una mediazione praticabile. Che sembra dare qualche frutto in termini di convergenza cino-russa-giapponese sull’esigenza e urgenza di una soluzione politica, complice anche la vittoria del nuovo presidente della Corea del sud.

Altra novità si è materializzata in merito all’incancrenita questione israelo-palestinese, giacchè, se è pur vero che Netanyahu ha incassato subito lo scontato appoggio della nuova Amministrazione americana, non è men vero che Trump vi ha insinuato potenziali varianti significative, ancora non si sa se solo tattiche o meno: lo sparigliamento delle carte insite nella sua frase “… la soluzione dei due Stati non è l’unica ….”; l’invito al leader israeliano a “… fermare l’espansione dei suoi insediamenti per un po’ di tempo..” e la cordialità con la quale ha accolto il leader palestinese Abu Mazen al quale ha trasmesso l’impegno a propiziare quell’accordo che nessun Presidente americano è riuscito a far decollare.

Aggiungiamo a ciò il cono d’ombra proiettato sullo spostamento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme. Altro mutamento ha riguardato il velo steso sulla “obsolescenza” della NATO lamentata in campagna elettorale mentre ha mantenuto la sollecitazione ai paesi membri di onorare il concorso (2%) alle sue spese militari posto in rilievo dallo stesso Obama.



Sia chiaro, con questi cenni non intendo certo sostenere la tesi di un ormai imboccato processo di “normalizzazione” del personaggio Trump. Le ombre prevalgono ancora sulle luci: basti pensare all’annunciata rivisitazione dell’accordo di Parigi sul clima come alla sua manifesta propensione a guardare con simpatia i leader forti, per non dire autoritari, com’è il caso del Presidente egiziano Al Sisi e del filippino Duterte.

Reputo però importante non sottovalutare queste indicazioni politiche del nuovo inquilino della Casa Bianca nell’auspicio che esse possano andare moltiplicandosi nel prossimo futuro, per effetto dei controlli e contrappesi (checks and balances) del sistema americano, ma anche per una sua maturazione concettuale e politica. Il caso siriano parrebbe confermarlo. Lo vedremo e presto; intanto con riguardo all’Iran e alla risposta che darà al suo voto, ormai imminente.

Poi, molto più concretamente, dall’esito della sua prima missione all’estero che inizierà con l‘Arabia saudita e si concluderà col vertice del G7 a Taormina, passando per Israele e per i Territori occupati, per Roma (il Papa e i vertici politico-istituzionali italiani) e per Bruxelles (vertice NATO). Missione tanto Impegnativa quanto significativa, per il suo itinerario e per le sfide che implica. Si tratta in ogni caso di una missione che smentisce almeno in parte la voglia di isolazionismo che Trump aveva lasciato intravvedere, mentre sembra confermare come non siano ancora maturi i tempi di un incontro con l’Unione europea. Come con la Russia, del resto, con la quale col quale sembra essersi ingaggiata, soprattutto dopo la visita a Washington del ministro Lavrov una sofisticata trama di interessanti verifiche reciproche in un puzzle planetario che va dalla Siria all’Ucraina, dalla Libia a Pechino.

A cura di Armando Sanguini

Armando Sanguini è stato Ambasciatore della Repubblica Italiana:

 

Direttore generale relazioni culturali
Direttore generale Africa
Capo missione in Cile Tunisia e Arabia saudita

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