I diritti delle donne nelle legislazioni internazionali



Lunga la battaglia per il riconoscimento dei diritti politici delle donne. È infatti solo dopo la seconda guerra mondiale e sotto l’impulso della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne che si ha la prima legislazione. Fino al 1952 il suffragio femminile era garantito in meno di 100 Paesi nel mondo. La convenzione fu adottata il 31 marzo del 1953 e se nel preambolo dell’articolo 21 della dichiarazione universale dei diritti umani è espresso il concetto:”tutti gli uomini hanno diritto  partecipare al governo del proprio Paese e di accedere agli incarichi pubblici” viene introdotta e ribadito questo diritto anche per le donne.

Tre sono gli articoli ad esse dedicati, il primo sancisce il diritto di voto, il secondo quello di essere elette e il terzo specifica le condizioni di parità con gli uomini senza discriminazione alcuna.

Furono 123 i Paesi aderenti a tale convenzione di cui 122 membri delle Nazioni Unite che istituirono una serie di standard antidiscriminazione e accettarono trattati sulla nazionalità della donna sposata sul consenso del matrimonio e l’età minima per tale evento.

Nel 1967 fu approvata all’ unanimità la convenzione sull’ eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna che incorporava i principi sopra espressi.

È del 1975 la proclamazione dell’anno internazionale della donna e allo scopo di concentrare il dibattito degli Stati e delle organizzazioni sulla promozione dei diritti della donna fu dichiarato il 1975 – 1985 il decennio delle Nazioni Unite per la donna.

Con la Conferenza di Città del Messico del 1975 si ha occasione di scambio e arricchimento tra i Paesi del nord e sud del mondo.

Nel dicembre del 1979 viene adottata dall’ Assemblea Generale la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) elaborato sulla base delle precedenti convenzioni da una commissione chiamata “Condizione della Donna”(CSW). Il testo è composto da 11 articoli in cui si denunciano le discriminazioni contro le donne come “essenzialmente ingiusta e un offesa per i diritti umani” e chiama gli Stati ad adottare “tutte le misure necessarie (…) al fine di eradicare i pregiudizi e abolire le pratiche tradizionali, o di qualsiasi altro tipo, che siano basate sull’idea dell’inferiorità della donna” anche se non legalmente vincolanti, ma rimette alla libera volontà degli Stati.

È con la risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993 che L’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta la dichiarazione della violenza contro le donne. Essa esprime la “necessità urgente per l’applicazione universale alle donne dei diritti e dei principi in materia di uguaglianza, la sicurezza, la libertà, l’integrità e la dignità di tutti gli esseri umani” ed è complementare e di rafforzamento alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna e la Dichiarazione e Programma d’azione di Vienna, ed anche se negli articoli 1 e 2 fa riferimento esclusivo alla lotta alla violenza contro le donne contiene gli stessi diritti e principi sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Gli articoli definiscono in concetto di violenza contro le donne, e cioè ogni atto che arreca sofferenza fisica, sessuale o psicologica a discapito di una donna, comprese minacce, coercizioni e privazioni delle libertà sia pubbliche che private. In particolare l’articolo due fa riferimento alla violenza di tipo familiare, alle mutilazioni dei genitali, allo sfruttamento e alle pratiche tradizionali che possono essere anche esplicate entro le comunità, sul posto di lavoro e in qualsiasi luogo e al traffico delle donne e alla prostituzione forzata.

Fino ad allora la violenza contro le donne era stata vista come una questione privata che non necessitava dei provvedimenti dello Stato, invece adesso viene anche preso in considerazione la violenza fisica, sessuale e psicologica condotta da parte dello Stato ovunque essa accada.

Con l’adozione della risoluzione 1994/45 del 4 marzo 1994 la commissione ha nominato  Radhika Coomaraswamy, primo relatore ufficiale con mandato di raccogliere, analizzare e formulare raccomandazioni a tutti i livelli per la lotta contro la violenza. L’attuale quarto relatore è Dubravaka Šimonović.

Si presentano quindi due sentenze della CEDU rilevanti ai diritti delle donne:

CASO I.G. AND OTHERS v. SLOVAKIA

(Application no. 15966/04) 13 Novembre 2012

Le tre ricorrenti erano tre donne rom che, tra il 1999 e il 2002, vennero sterilizzate a loro insaputa dai medici dell’ospedale di Krompachy, nella Slovacchia. Almeno le prime due donne vennero sterilizzate con chiusura delle tube subito dopo il parto con taglio cesareo, anche la terza però i dettagli dell’operazione non sono conosciuti. I documenti necessari per approvare la procedura vennero compilati con una macchina da scrivere e fatti firmare, secondo le ricorrenti, mentendo sui loro contenuti, in uno dei casi la ricorrente era sotto effetto di un anestetico. Mentre erano in ospedale, le donne venivano ospitate separatamente dalle donne non rom, in quelle che venivano chiamate “stanze zingare”. Non potevano usare gli stessi servizi igienici delle donne non rom e non potevano entrare nella sala da pranzo comune.

Il report del 2003, “Body and Soul: Forced and Coercive Sterilization and Other Assaults on Roma Reproductive Freedom in Slovakia”, venne utilizzato come prova davanti alla Corte per avviare le investigazioni. Comprendeva un’intervista con il ginecologo capo dell’ospedale di Krompachy in cui affermava che i Rom non conoscevano il valore del lavoro, che abusavano del sistema di assistenza sociale e che avevano figli semplicemente per ottenere più assistenza sociale. La prima e la terza ricorrente si unirono alla causa della seconda e svolsero un ruolo di testimoni e parte lesa. Dopo che un’indagine penale sui casi delle ricorrenti venne interrotta dalle autorità slovacche, le donne chiesero ripetutamente di riaprire le indagini. Il caso è stato chiuso nel 2008 senza che fossero state formulate accuse penali. Tutti e tre le ricorrenti hanno avviato un’azione civile individuale contro l’ospedale. Solo l’azione della seconda ricorrente ha avuto successo. Le sono stati assegnati 1.593 euro a titolo di risarcimento. Le donne hanno presentato ricorso alla CEDU contro la Repubblica slovacca il 27 aprile 2004. Hanno denunciato violazioni dei loro diritti e ad essere esenti da trattamenti inumani e degradanti (articolo 3), al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8), al matrimonio (articolo 12) e a un rimedio effettivo (articolo 13). Hanno anche affermato che la loro sterilizzazione forzata era il risultato di una discriminazione (articolo 14).

Per quanto riguarda la terza ricorrente, ai sensi dell’articolo 34, solo le singole vittime di violazioni della Convenzione possono presentare ricorso alla Corte. Nel caso di una vittima deceduta, la Corte valuterà: se le persone che cercano di proseguire il loro caso sono stretti familiari; se i diritti in questione sono “trasferibili”; il caso implica una questione importante di interesse generale che il tribunale dovrebbe considerare nonostante la morte del ricorrente.

La CEDU ha ritenuto che i figli della terza ricorrente non potessero continuare l’azione sulla base di decisioni precedenti che ritenevano che gli articoli 3, 8, 12 e 14 costituissero diritti non trasferibili legati alla persona della vittima. Poiché il caso della terza ricorrente era simile a quello della prima e della seconda, la CEDU ha ritenuto che non vi fosse alcun interesse generale nell’ulteriore considerazione della sua richiesta. Il giudice Bratza non concordò con questa decisione, sostenendo che le “circostanze inquietanti del caso” e la necessità di rispettare i diritti umani della terza ricorrente ne garantivano la continuazione da parte dei suoi figli.

La CEDU ha seguito il ragionamento applicato nelle cause VC contro Slovacchia e NB contro Slovacchia, le due precedenti cause riguardanti la sterilizzazione di donne rom. Ha ritenuto che le sterilizzazioni non salvavita, condotte senza il consenso informato delle donne o dei loro tutori legali, costituivano un trattamento inumano e degradante e una violazione sostanziale degli obblighi della Slovacchia ai sensi dell’articolo 3. Per quanto riguarda l’affermazione delle ricorrenti che le loro sterilizzazioni avevano seriamente interferito con la loro vita privata e la vita familiare, la CEDU ritenne che, omettendo di mettere in atto garanzie legali efficaci per proteggere i diritti riproduttivi, in particolare delle donne di origine rom, la Slovacchia violava l’articolo 8. Poiché aveva già riscontrato una violazione dell’articolo 8, la Corte ha rifiutato di esaminare se il diritto delle donne a formare una famiglia (articolo 12) fosse stato violato. La CEDU respinse l’affermazione delle ricorrenti secondo cui il loro diritto ai sensi dell’articolo 13 a un ricorso effettivo era stato violato. Le due donne avevano portato avanti i loro casi nelle giurisdizioni civili e penali dei tribunali slovacchi. La CEDU ha sottolineato che il diritto a un rimedio non è un diritto a un rimedio che ha successo, né l’articolo 13 richiede un rimedio contro lo stato del diritto interno. Per quanto riguarda l’affermazione delle donne secondo cui la loro sterilizzazione è avvenuta a causa della discriminazione razziale nei loro confronti in quanto rom, e della discriminazione sessuale nei loro confronti in quanto donne, la CEDU ha rifiutato di pronunciarsi. Si è basata sul ragionamento applicato in VC e NB che, poiché non è stato possibile dimostrare che la condotta del personale ospedaliero fosse intenzionalmente motivata dal punto di vista razziale, una constatazione ai sensi dell’articolo 14 non era necessaria. La CEDU ha ritenuto che fosse sufficiente riconoscere, nel contesto della sua analisi dell’articolo 8, che le carenze nella pratica della salute riproduttiva slovacca erano suscettibili di colpire in modo particolare le comunità vulnerabili come i Rom.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha nuovamente rifiutato di decidere se la sterilizzazione forzata delle donne rom in Slovacchia costituisca una discriminazione ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questo è il terzo caso di sterilizzazione forzata a venire posto davanti alla Corte. La Corte ha ritenuto che la sterilizzazione di due donne rom costituisse un trattamento inumano e degradante e che la Slovacchia avesse violato il diritto delle due donne al rispetto della vita privata e familiare. La Corte ha assegnato danni e costi ai ricorrenti. La richiesta di una terza donna è stata cancellata a causa della sua morte. La Corte ha negato ai suoi figli il diritto di continuare la domanda per suo conto.

CASO EREMIA v. THE REPUBLIC OF MOLDOVA

(Application no. 3564/11) 28 Maggio 2013

Il caso si originò dalle violenze domestiche subite dalla ricorrente Lilia Eremia, e le sue due figlie, Doina e Mariana Eremia per mano del marito della ricorrente sin dalla fine degli anni ’90, poliziotto di professione nella stazione di polizia di Călăraşi. Il 30 Agosto 2010 la ricorrente ha cominciato a denunciare le varie aggressioni alla polizia. Nella prima occasione il marito venne multato per un totale di 12,40 euro. È stato solo dopo una serie di aggressioni denunciate, alcune delle quali sono avvenute di fronte alle figlie della ricorrente, che è stato emesso un ordine di protezione il 9 Dicembre 2010. Sempre giorno 9 Dicembre, la ricorrente aveva anche chiesto il divorzio, ma le era stato detto che c’era un periodo di attesa di sei mesi per le coppie per consentire una possibile riconciliazione. La sua richiesta di ignorare questo periodo di attesa è stata rifiutata. L’ordine di protezione non è mai stato applicato dai servizi sociali e il marito ha violato l’ordine in più occasioni, tornando addirittura a vivere a casa senza permesso. Ogni incidente è stato denunciato alla polizia e inoltrato all’ufficio del pubblico ministero, senza alcuna reale risposta. La polizia affermò che l’intrusione in casa avvenne con il consenso della ricorrente, ma la dichiarazione non è mai stata sostenuta da nessuna prova.

Il 10 Gennaio 2011 la polizia fece pressioni sulla ricorrente per convincerla a ritirare la sua denuncia penale. La polizia affermò che suo marito avrebbe perso il suo lavoro se fosse stato condannato e ciò avrebbe compromesso l’educazione delle figlie. Il pubblico ministero decise eventualmente di non avviare un’indagine penale. Il giorno successivo il marito tornò a casa, aggredì la ricorrente e la minacciò di ucciderla se non avesse ritirato le denunce.
La ricorrente venne eventualmente invitato a incontrarsi con i servizi sociali, i quali le consigliarono di riconciliarsi con suo marito dato che “non era né la prima né l’ultima donna a essere picchiata dal proprio marito”.

Nell’aprile 2011 il marito ha ammesso presso l’Ufficio del Procuratore di aver abusato fisicamente e psicologicamente della moglie e delle figlie. Il marito ha concluso un patteggiamento e ha chiesto di essere liberato condizionalmente dalla responsabilità penale. Il pubblico ministero, nonostante abbia trovato prove sostanziali dell’abuso, ha ritenuto che il reato fosse un “reato meno grave”, che il marito aveva tre minori da sostenere, era rispettato nella comunità e non rappresentava un pericolo per la società. Il pubblico ministero ha quindi sospeso le indagini. La richiedente fece appello contro questa decisione senza successo, ritenendo che la sospensione dell’indagine avrebbe garantito una migliore protezione alle ricorrenti.

Le leggi moldave proteggono dalla violenza familiare, imponendo il servizio alla comunità o il carcere con un periodo di tempo dipendente dalla gravità della violenza. L’esenzione dalla responsabilità penale è disponibile solo per reati meno gravi e laddove l’autore non rappresenti un pericolo per la società. La Corte ha esaminato il caso ai sensi della Convenzione, in particolare l’articolo 3: Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni inumane o degradanti; l’articolo 8: Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, della propria casa e della propria corrispondenza; l’articolo 3 in combinato disposto con l’articolo 14: Il godimento dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione deve essere assicurato senza discriminazioni per motivi come il genere.

Al contrario di precedenti casi simili, la Moldavia aveva una legislazione per proteggere contro la violenza domestica e punire i trasgressori. Però, la CEDU rilevò che la mancata attuazione tale legislazione equivalesse a una violazione degli obblighi della Moldavia nei confronti della convenzione Europa. Si fece nota del fatto, date le ripetute aggressioni sulla ricorrente e la palese violazione dell’ordine di protezione, non era chiaro come il pubblico ministero potesse concludere che il marito “non era un pericolo per la società”. La sospensione delle indagini penali ha effettivamente protetto il marito dalla responsabilità, piuttosto che prevenire ulteriori violenze.

La Corte ha ritenuto che le aggressioni, così come il timore di ulteriori maltrattamenti, hanno causato alla ricorrente sofferenza e ansia pari a un trattamento disumano ai sensi dell’articolo 3. Tradizionalmente incentrato sul trattamento da parte delle autorità pubbliche, la Corte ha ribadito tale articolo 3 richiede inoltre che le autorità conducano indagini efficaci su presunti maltrattamenti anche se tali trattamenti sono inflitti da privati. La mancata adozione di misure adeguate al fine di proteggere le figlie, traumatizzate per aver assistito alle aggressioni del padre nei confronti della ricorrente, è stata considerata una violazione degli obblighi in materia di rispetto della vita privata di cui all’articolo 8.

Infine, l’incapacità del sistema giudiziario e di altre agenzie governative di fornire una risposta adeguata alla violenza domestica grave equivaleva ad una discriminazione di genere ai sensi dell’articolo 14 in combinazione con l’articolo 3. La Corte ha osservato che la violenza era di genere e ha accettato prove che la violenza di genere affligge sproporzionatamente e le donne. Tale violenza richiede una risposta che la consideri una forma di discriminazione basata sul genere; in caso contrario, non sarà possibile prevenire efficacemente ulteriori abusi. Secondo la corte, la combinazione di fattori, come la pressione per ritirare la denuncia, e l’esortazione nei confronti della ricorrente a riconciliarsi e così via dimostra chiaramente che le azioni delle autorità equivalgono a condonare ripetutamente tale violenza e riflettono un atteggiamento discriminatorio nei confronti della ricorrente in quanto donna.

La Corte ha anche preso in considerazione le conclusioni del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne per giungere alla conclusione che era chiaro che le autorità in Moldova non hanno seriamente preso in considerazione la gravità e la portata del problema della violenza domestica in Moldova e il suo effetto discriminatorio sulle donne.

Il fallimento della Moldavia a proteggere adeguatamente una donna e le sue due figlie dalle violente aggressioni di suo marito è stato considerato una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La CEDU ha ritenuto che l’inazione della Moldavia costituisse una violazione degli articoli 3, 8 e 14.
Il caso è uno importante sviluppo nei modi in cui i diritti umani possono essere utilizzati per affrontare i problemi cronici della violenza di genere e della discriminazione di genere.

 

Emmanuele Sartorio

Giulio Berna

Bibliografia
M.A. Human rights and multi- level Governance, di Elisa Speziali

 

Fonti

https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/La-Convenzione-per-leliminazione-di-ogni-forma-di-discriminazione-nei-confronti-delle-donne/381#:~:text=University%20of%20Padua-,La%20Convenzione%20per%20l’eliminazione%20di%20ogni%20forma%20di%20discriminazione,Assemblea%20Generale%20nel%20dicembre%201979(20/11/20)

https://www.studiocataldi.it/doc/olivieri/cap2.asp (20/11/20)

http://www.un.org/womenwatch/daw/cedaw/cedaw.htm (20/11/20)

http://www2.ohchr.org/english/bodies/cedaw/convention.htm (20/11/20)

https://www.echr.coe.int/documents/Fs_gender_Equality_ENg.pdf (20/11/20)

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https://rm.coe.int/16806da342 (20/11/20)

https://www.refworld.org/cases,ECHR,50a289e22.html (20/11/20)

http://reproductiverights.org/sites/crr.civicactions.net/files/documents/bo_slov_part1.pdf (20/11/20)

https://ehln.org/?p=27057 (20/11/20)

https://www.echr.coe.int/documents/convention_eng.pdf (20/11/20)

 

 

 

 

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