Elemosina rituale e lotta alla povertà: il fenomeno della zakāt nel contesto islamico



Dopo aver analizzato, nell’articolo precedente, i vari tipi di divieti presenti all’interno del Corano nel campo economico e commerciale, appare utile adesso concentrarsi nello specifico su quegli istituti e strumenti che gli appartenenti alla umma hanno utilizzato nel corso dei secoli per garantire una più efficiente ed efficace redistribuzione della ricchezza all’interno della stessa. Bisogna subito specificare che, sin dal principio, la comunità islamica si è sempre contraddistinta per la presenza, al suo interno, di un forte senso di coesione ed unità: posto che tutti i lavori sono considerati utili e necessari per lo sviluppo della società e posto che ogni lavoratore riceve una diversa remunerazione rispetto all’attività svolta, sarà compito dei più benestanti donare parte del reddito guadagnato a favore dei più deboli come segno di fratellanza e solidarietà sociale. Bisogna infatti ricordare che la zakāt, ovvero l’elemosina rituale, rappresenta uno dei cinque pilastri fondamentali dell’islam che ogni credente deve rispettare. 

Il termine zakāt deriva dal verbo zakā, termine che racchiude il senso di virtù e benessere, sia individuale che collettivo, che si raggiunge attraverso l’offerta e la donazione di denaro a favore dei confratelli più deboli. A differenza della sadaqa, che rappresenta la classica forma di elemosina come forma di donazione privata presente anche nel cristianesimo, la zakāt può essere considerata come una vera e propria forma di tassazione generale del 2,5% applicata sui beni non utilizzati a fini produttivi. Gli obiettivi che stanno dietro tale forma di tassazione sono molteplici: in primo luogo, garantire la redistribuzione della ricchezza nella comunità per permettere una maggiore coesione e solidarietà all’interno della società di riferimento; in secondo luogo, da un punto di vista economico-commerciale, dato che la tassazione è applicata solo sui beni non utilizzati a fini produttivi, questo spinge i rispettivi proprietari ad utilizzarli e sfruttarli a dovere, migliorando in tal modo la produttività generale e creando le basi per la creazione di un modello virtuoso di circolazione della ricchezza; inoltre, i fondi ottenuti dalla tassazione permettono di lottare contro il fenomeno della disoccupazione, in quanto possono essere utilizzati per finanziare nuove attività o idee produttive di persone ai margini della società e ritenuti non bancabili dai tradizionali istituti di credito.

Per capire fino in fondo il senso di quest’ultimo obiettivo, bisogna fare prima un passo indietro e capire cosa si intenda per “povero” nel contesto musulmano. Nel primo significato possibile, il povero è considerato colui che a causa di problemi di carattere fisico o mentale non abbia più l’effettiva possibilità di lavorare per mantenersi: in questo caso, dunque, l’aiuto della comunità è fondamentale per sopravvivere. Nel secondo possibile significato, invece, per povero si intende colui che si trova ancora in età lavorativa e non ha problemi di natura fisica o psichica, ma per svariati motivi si trova in uno stato di disoccupazione ed indigenza. In questo caso, come detto precedentemente, l’obiettivo dell’elemosina è quello di fornire al soggetto gli strumenti economici per rimettersi sul mercato del lavoro ed aprire un’attività commerciale: l’elemosina, dunque, viene utilizzata come una vera e propria forma di microcredito. 

Da un punto di vista storico, la creazione di un meccanismo di redistribuzione della ricchezza si rese necessario proprio a causa della nascita e dell’espansione dell’Islam, momento in cui Maometto cominciò la sua predicazione e fu costretto, insieme ai nuovi fedeli, a lasciare La Mecca a causa della persecuzione attuata dalla tribù coreiscita al potere. Questo sradicamento repentino dal proprio contesto sociale di riferimento portò infatti moltissimi soggetti a perdere il supporto e l’aiuto della propria famiglia e dunque a vivere in uno stato di privazione e disagio economico. Tale situazione destò una certa preoccupazione nell’animo del Profeta, il quale si rese immediatamente conto della pericolosità di un allargamento eccessivo del livello di disuguaglianza all’interno della comunità: per questo motivo fu creato l’istituto della zakāt, strumento utilizzato per cercare di ristabilire un certo grado di giustizia sociale e aiuto reciproco. 

All’interno del Corano, nella sura IX,60, sono stati previsti espressamente le otto categorie per cui debba essere utilizzata la zakāt:

“Le elemosine sono per i bisognosi, per i poveri, per quelli incaricati di raccoglierle, per quelli di cui bisogna conquistarsi i cuori, per il riscatto degli schiavi, per quelli pesantemente indebitati, per [la lotta sul] sentiero di Allah e per il viandante. Decreto di Allah! Allah è saggio, sapiente”.

Nonostante la chiarezza e la nitidezza delle parole presenti nel Testo Sacro islamico, non vi è unanimità nel mondo giuridico sul tema dell’utilizzo dell’elemosina rituale. Le posizioni principali sono due: da un lato i cosiddetti “tradizionalisti”, i quali sostengono che non ci sia nulla da interpretare su tale argomento in quanto è il Corano stesso a delimitare gli ambiti di utilizzo di quello che è può essere considerato come un vero e proprio strumento di welfare; dall’altro lato vi sono invece i cosiddetti “riformatori”, i quali invece sostengono la necessità di modellare un sistema tributario più confacente ai tempi moderni. Quest’ultimi, in particolare, per rafforzare la propria tesi sostengono in primo luogo che alcune categorie presenti nel Corano, come ad esempio quella degli schiavi, non esistano più e dunque è impossibile attuare un’interpretazione letterale delle sacre scritture. Inoltre, essi sostengono che sarebbe opportuno aumentare l’aliquota della zakāt e far rientrare all’interno del nuovo sistema di tassazione strumenti e rendite finanziarie prima inesistenti. In generale, comunque, gli studiosi di entrambi gli schieramenti sostengono che la zakāt possa essere considerato un ottimo strumento di lotta alla povertà in quanto, essendo un obbligo stabilito dal Corano, tutti i fedeli propendono a pagare questa imposta senza troppe rimostranze, spingendo dunque il fenomeno dell’evasione fiscale al minimo. 

Enrico Cocina

 

Per approfondire: 

– C. Tripp, Islam and moral economy: the challenge of capitalism, Cambridge, Cambridge University Press, 2006.

– E. Giustiniani, Elementi di finanza islamica, Torino, Marco Valerio Editore, 2006. 

– E. Vadalà, Capire l’economia islamica, Brolo (ME), Yorick Editore, 2004.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *