La guerra ai tempi del Web 2.0 – ISIS e comunicazione digitale



La guerra ai tempi del Web 2.0 – ISIS e comunicazione digitale

Dalla proclamazione, nel 2014, di al-Raqqa al ruolo di capitale del sedicente Stato Islamico, lo sforzo operato da oltre 60 paesi ha portato alla progressiva riduzione delle discontinue aree geografiche controllate dal califfato.  Zona dopo zona, città dopo città, metro dopo metro, durante questi anni di guerra l’autoproclamatosi Stato Islamico è stato duramente colpito e privato di molte delle sue roccaforti, comprese le città simbolo di al-Raqqa e Mosul che, ancor prima di essere piazzeforti dell’oscurantismo del Daesh, rappresentavano la volontà del califfato di propagandarsi come vero e proprio attore statale in grado di gestire, regolare e riorganizzare i propri domini territoriali.

Eppure, a detta di  molti analisti, risulta ancora prematuro celebrare la sconfitta del califfato perché, se da un lato è certamente vero che esso è stato annientato nella sua pura (ma priva di effettivo contenuto) espressione geografica, è altrettanto vero che, sin dai suoi esordi, Daesh ci ha abituati, come Al Qaeda prima di lui, a delle tattiche di guerra asimmetriche operate da un nemico sfuggente e difficile da prevedere. Privo di tutte le ramificazioni territoriali tipiche di un vero e proprio stato nazione, l’Isis non si è dovuto preoccupare dei bombardamenti chirurgici dal momento che è sempre stato privo di un sistema militare-industriale che potesse essere messo in crisi, non si è preoccupato delle proprie città poste sotto assedio perchè non ha mai avuto la necessità di tenere conto del concetto di opinione pubblica (almeno sul fronte interno). Ecco perché aver colpito il califfato nella sua mera espressione geografica non si è tradotto  nella sconfitta dell’ideale incarnato dall’Isis.

Perché l’Isis prima di essere uno stato privo di contenuto è una potente idea, un monolito intangibile rivolto verso tutti i musulmani che vivono al di fuori dei suoi fittizi confini, un calderone di radicalismo che ha come unico scopo quello di fornire un ideale con cui attrarre gli esclusi della società  occidentale. L’Isis prospera e recluta nei quartieri periferici delle metropoli occidentali, zone dove ingiustizia sociale, marginalizzazione e misere condizioni economiche rendono i giovani immigrati, di seconda e terza generazione, facile preda dell’efficace macchina propagandistica del califfato.

Come sottolineato da molti analisti ed esperti (http://tinyurl.com/y7yc6xuf), l’uso dei social media e della comunicazione digitale da parte dell’Isis è moderno, studiato, complesso e nettamente più avanzato di quanto Al Qaeda e altre organizzazioni simili avessero mai fatto. L’apparente facilità con cui i reclutatori del califfo riescono a plasmare e motivare i cosiddetti “foreign fighters” ( combattenti stranieri) è profondamente legata al modo in cui la divisione mediatica dell’organizzazione comunica i suoi successi e le sue sconfitte: le applicazioni per i dispositivi mobili, i social e i media tradizionali sono meccanismi di una macchina della propaganda efficiente e spietata. Tenendo bene a mente i principi della captologia (disciplina che studia l’uso dei computer e dei mezzi digitali come strumenti di persuasione), gli strateghi della comunicazione del Daesh  si sono concentrati sulla creazione di un’idea e una forma dello Stato Islamico che travalica i limiti geografici dello stato di diritto, ma che invece diventa un’identificazione collettiva per tutti coloro che, non solo si sentono di partecipare alle idee sostenute dal Daesh, ma che ne percepiscono indirettamente la caratura differente rispetto ad Al Qaeda.

Il successo mediatico dei profili social dell’Isis, evidente da una serie di analisi dei loro dati più recenti (http://tinyurl.com/y7yc6xuf), è dovuto in larga parte all’eccellente lavoro dell’organizzazione  nel veicolare i messaggi necessari con un linguaggio occidentale: Da notare come il materiale di propaganda realizzato in questi ultimi anni dal califfato  sia contraddistinto da un linguaggio estremamente ponderato che fa propri i classici format televisivi occidentali, dai reality show ai reportage fino ai videoclip, diversificando  il loro vocabolario espressivo ed estendendo così la portata del messaggio. Abbandonando le videoregistrazioni dalle cupe e polverose caverne afghane dell’era Bin Laden, i loro prodotti si arricchiscono di ironia, violenza, potere e ricchezza economica. Si fanno fotografare compatti e ordinati a bordo di auto di grossa cilindrata e di fattura statunitense; umiliano con hashtag e photoshop i prigionieri di guerra; pubblicano senza scrupoli foto false e modificate per mostrare le loro grandi vittorie; ironizzano sul mondo occidentale e sulla sua caduta con immagini tragicomiche e vignette parodistiche; assumono programmatori e creano videogiochi che richiamano i grandi successi occidentali, ma con temi e azioni fortemente ispirati alla Jihad.

Studi condotti in merito hanno rilevato nella propaganda del califfato una costruzione stratificata, partendo dal locale per giungere ai famosi messaggi sugli account social. E’ improprio ritenere l’Isis un’entità che ha fatto proprie soltanto le basi della comunicazione 2.0, Daesh parte da una dimensione locale: è attivo nelle piazze, nei mercati e nelle moschee di vari paesi mediorientali. In quei luoghi dove l’accesso alla rete internet non è ancora capillare il califfato ha dimostrato di saper sfruttare agilmente strumenti quali radio, volantini e manifesti di propaganda. In tali luoghi l’Isis veicola messaggi profondamente diversi rispetto a quelli pensati per il pubblico occidentale: si promette uno stato efficiente, si promette ordine, alloggi, sussidi statali e assorbimento della disoccupazione.


Il secondo grado è quello della dimensione regionale: gli esperti dell’Isis confezionano messaggi rivolti principalmente agli abitanti della fascia nord africana trasmettendo un’immagine di stato solido che non cerca soltanto combattenti ma anche varie e diversificate figure professionali come medici, ingegneri, insegnanti, un messaggio generale diretto a tutti i volenterosi che risiedono al di fuori dei confini dello stato islamico col preciso invito a recarsi nei territori del califfo per contribuire alla costruzione di una nuova patria per tutti i musulmani.

Il terzo, e ultimo, grado è quello della dimensione globale: quello più famoso per noi, che ha il duplice scopo di reclutare combattenti in loco e intimorire i governi occidentali fornendo un’immagine delle milizie del Daesh non soltanto come spietate macchine assassine ma anche come forza armata moderna e ben organizzata. Non a caso l’Isis ha sempre riposto grande cura nell’omologazione delle divise dei propri combattenti (quando filmati dalle telecamere), imponendo un vestiario ed un equipaggiamento standardizzati che  richiamano i canoni di qualsiasi esercito regolare, con un occhio di riguardo nel coprire con passamontagna i volti di qualsiasi “soldato” comparisse nei loro video al fine di favorire nello spettatore l’immedesimazione non nel singolo combattente ma nell’idea pervasiva, perversa ed in definitiva più efficace dello stato islamico.

Il recente attentato in una moschea gremita di fedeli nel Sinai, costato circa 300 morti, risulta emblematico della duplice natura dell’Isis: quella ideale e quella territoriale. Seppur sconfitto sul piano territoriale, ad oggi, la macchina propagandistica del Daesh continua a radicalizzare singole cellule  nei vari paesi occidentali. Gli esempi di Nizza, del Bataclan, della Rambla di Barcellona sono soltanto alcuni degli esempi ormai tristemente noti di ciò che la martellante propaganda mediatica del califfato è stata in grado di scatenare, più che di comunicazione 2.0 in questo caso sarebbe meglio parlare di radicalismo 2.0 che ha come obiettivo giovani ragazzi musulmani relegati ai margini della società occidentale, figli di un’accoglienza fallace e mal gestita che ha prodotto, complice l’ingiustizia insita nel sistema capitalista, la voglia di riscatto e rivalsa in giovani che non hanno migliori aspettative dalla vita se non quella di immolarsi per un ideale. L’ideale dell’Isis.

A cura di: Fabrizio Tralongo e Claudio Cugliandro

 

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