La cittadinanza: da simbolo di nazionalità a strumento di esclusione



La percezione collettiva della cittadinanza è sempre stata collegata a concetti positivi quali appartenenza, uguaglianza, residenza nella stessa patria, nonché universalità dei diritti e doveri che da essa derivano.

In realtà, tutti questi concetti non hanno più nulla a che vedere con la cittadinanza contemporanea. Oggi, la maggior parte della popolazione mondiale vive in regimi non democratici in cui la cittadinanza rappresenta un vero e proprio ostacolo.

Quando, invece, essa comporta un vantaggio, automaticamente diventa uno strumento di esclusione nei confronti di quelle persone che vengono lasciate fuori. Esclusione che, come vedremo infra, si impone in maniera totalmente casuale e arbitraria: non esistendo una selezione meritocratica dei “candidati cittadini”, la cittadinanza pone le sue radici su scelte prettamente di natura politica.

Dopo aver accettato questa constatazione, ci si renderà conto che quegli elementi legittimanti su cui si è costruito nel corso dei secoli lo status di cittadinanza, oggi non giustificano più le discriminazioni che la cittadinanza stessa produce.

I principali studi sul tema della cittadinanza da parte degli scienziati politici contemporanei partivano dal saggio “Cittadinanza e classe sociale”. In questo libro, l’autore inglese T. Marshall propugnava una teoria sulla sequenza lineare dei diritti derivanti dalla cittadinanza, secondo cui i diritti sociali erano il prodotto consequenziale dei diritti civili e politici. Tale teoria, oggi, non ha più alcun fondamento se solo si riflette sul fatto che i diritti sociali (come l’assistenza sanitaria, l’istruzione, i redditi minimi ecc.) vengono concessi anche ai NON cittadini (solitamente ai residenti di lungo periodo). Inoltre, Marshall aveva un campo di indagine molto limitato, atteso che prendeva in esame soltanto una figura maschile, di carnagione bianca, di nazionalità inglese e residente all’interno del territorio della Gran Bretagna.

1.1 Metodi di acquisizione della cittadinanza

Attualmente, nel mondo vi sono più di trenta modalità differenti per ottenere una cittadinanza. Tuttavia, esistono tre categorie in cui possono essere suddivise: 1) lo jus sanguinis, ovvero quando si eredita la cittadinanza dai genitori (o altri ascendenti) nati in patria (che è la modalità più comune in Europa); 2) lo jus soli, quando si acquista direttamente alla nascita sul territorio (come in USA o Canada); 3) lo jus domicilii, ossia la naturalizzazione a seguito di residenza stabile (in Italia 10 anni). Recentemente, è stata introdotta in Unione europea una quarta categoria: lo jus pecuniae, ossia la cittadinanza per investimento. A partire dal 2013, il primo Stato ad applicarla è stata Malta (e non c’è da stupirsi), seguita da Cipro e Bulgaria. Si tratta di una vera e propria compravendita che parte da un prezzo di 650 mila euro e può arrivare fino a 2 milioni di euro, in base agli investimenti richiesti in abitazioni, conti correnti ecc. L’incoerenza risiede nel fatto che chiunque abbia la possibilità di spendere questa cifra (altra grande esclusione), all’improvviso diventa meritevole di acquisire (o meglio acquistare) la cittadinanza maltese (e quindi dell’Unione europea) senza aver mai messo piede su quel territorio. Si ottiene così un passaporto che permette di circolare liberamente in tutta l’area Schengen, oltre che in diversi Stati di tutto il mondo. Infatti, la cittadinanza dell’Ue si ottiene automaticamente una volta acquisita quella di uno Stato membro. Inoltre, non avendo alcuna competenza in materia, l’Ue non può neppure sindacare sulle scelte che i vari governi adottano per la definizione dei requisiti di ottenimento della cittadinanza.

Se a tutto ciò si aggiunge la recente predisposizione di test di conoscenza linguistica o civica agli immigrati che intendono ottenere la cittadinanza (in Italia il Decreto sicurezza ha introdotto il requisito del livello B1[1]), allora diventa ancora più palese come la cittadinanza sia completamente scollegata da tutti quei principi che vengono tuttora propugnati (identità, nazionalità, appartenenza, legame genuino col territorio ecc.), visto che se i cittadini italiani provassero a superare quegli stessi test, la maggior parte di loro verrebbe bocciata.

2.1 Esclusione in base al genere

Fino alla I guerra mondiale, nella maggior parte degli Stati occidentali, i figli prendevano la cittadinanza esclusivamente del padre, negando così alle donne la possibilità di poter “creare” nuovi cittadini. In Belgio, si è dovuto perfino attendere il 1988 prima che questa diseguaglianza venisse eliminata. In Libano è tuttora presente. In Svizzera fino al 1971 le donne, pur essendo cittadine, non avevano neanche il diritto di voto.

Solo grazie alla cittadinanza dell’Unione europea[2], i transessuali sono riusciti ad ottenere il riconoscimento di tutti quei diritti sociali esclusivamente e tipicamente connessi alla cittadinanza nazionale.[3]

  • Esclusione etnica

Se la revoca della cittadinanza agli ebrei tedeschi durante il periodo del Terzo Reich è un fatto ben noto, lo è di meno quello degli Aborigeni che ottennero la cittadinanza australiana (e quindi diritto di voto) solo dopo il 1967. Nel periodo post-coloniale, alcuni Stati africani che si andavano proclamando indipendenti, iniziarono a deportare gli europei perché non erano degni di ottenere la loro cittadinanza. Il Kenya e l’Uganda, revocando la cittadinanza ai coloni inglesi, ridussero in rifugiati gli indiani poiché, non avendo la pelle bianca, erano considerati dal governo inglese come cittadini “non patrial” e di conseguenza non potevano risiedere in tutto il Regno Unito (pur avendo il passaporto britannico). Tutt’oggi, in Liberia, se non si è di carnagione nera è impossibile ottenere la cittadinanza.

  • Esclusione in base alla residenza

Gli Stati Uniti, pur essendo uno Stato federale, concessero la libertà di movimento interna tra alcuni Stati solo a partire dal 1941. Attualmente, se sei cittadino americano ma vivi e risiedi stabilmente all’estero, dovrai comunque pagare alcune tasse americane (per questo motivo Boris Johnson ha volontariamente perso la cittadinanza USA).

In Europa, le libertà di circolazione e di residenza (due diritti esercitabili serenamente all’interno di ogni Stato e tipicamente ottenuti proprio grazie al requisito della cittadinanza), vennero fortemente limitati per quaranta anni. Solo grazie alla creazione della cittadinanza europea[4] (oltre che all’importante contributo della Corte di Giustizia UE) si è andati incontro alla progressiva istituzionalizzazione dei principi di libera circolazione e non discriminazione in base alla nazionalità (che prima veniva garantita solo ai lavoratori). Fino ad allora, la cittadinanza nazionale restava lo strumento principale che ostacolava gli ingressi e il soggiorno tra gli Stati europei.

Ancora oggi, la residenza resta uno strumento di esclusione per quei cittadini provenienti da paesi in guerra, i quali hanno meno possibilità di immigrare rispetto agli apolidi. Un cittadino afghano avrà certamente meno opportunità di viaggiare, ottenere una tutela internazionale o semplicemente successo nella vita, rispetto a qualsiasi altro apolide nel mondo.

  • Esclusione politica

È paradossale che i cittadini residenti da tanti anni all’estero possano votare per tutte le elezioni nazionali, andando di fatto ad incidere sulle sorti degli immigrati che vivono e lavorano in quello stesso Stato, ma che invece continuano ad essere ingiustamente esclusi dal voto.

Solo i cittadini dell’Unione europea hanno il diritto di votare e candidarsi alle elezioni amministrative del comune in cui risiedono (ma non per quelle nazionali e regionali)[5]. È chiaro quindi che cittadinanza e diritti politici è divenuto ormai un binomio errato.

CONCLUSIONE

Si può concludere affermando che la cittadinanza non deve essere più considerata uno strumento di inclusione sociale e politica, com’è stata sempre osannata.

La maggior parte dei diritti civili e sociali vengono ormai tutelati a livello internazionale, come dimostrato brillantemente da Bobbio[6], a prescindere dalla cittadinanza posseduta.

La cittadinanza, oggi rispetto al passato, ha soltanto il compito di garantire agli individui la presenza su un territorio nazionale senza correre il rischio di essere espulsi o respinti (come può succedere invece anche agli immigrati comunitari che intendono trasferirsi in un altro paese Schengen ma che non soddisfano i requisiti di reddito, lavoro, studio ecc.).

In linea con quanto detto finora, la recente sentenza della Consulta[7] supera l’interpretazione letterale dell’articolo 3 della Costituzione italiana ed estende l’applicazione del principio di uguaglianza a garanzia dei diritti di tutte le persone, indipendentemente dallo status di cittadinanza.

 

Francesco Russo

 

Bibliografia

Dimitry Kochenov, Cittadinanza, il Mulino, Bologna, 2020

Margiotta Costanza, Cittadinanza europea, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014

Christian Joppke et al., How liberal are citizenship tests?, Robert Schuman Centre for advanced studies, Firenze, 2010

Ayelet Shachar e Rainer Baubock, Should citizenship be for sale?, Robert Schuman Centre for advanced studies, Firenze, 2014

Margiotta Costanza, I presupposti della cittadinanza europea: originarie contraddizioni e nuovi limiti, F.S.J. European legal studies, 2018

[1] E qualcuno benestante ha già provato a corrompere gli esaminatori delle commissioni valutatrici

[2] La cui supremazia del diritto su quello dell’ordinamento nazionale è ormai consolidata

[3] Vedasi la sentenza Richards (2006) della C.G.U.E. per l’abbassamento dell’età di pensionamento da 65 a 60 anni; sentenza K.B. (2004) per il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso

[4] Artt. 20 e ss. Trattato di Maastricht (TUE)

[5] Direttiva 94/80/CE del Consiglio dell’UE del 19 dicembre 1994

[6] Noberto Bobbio, l’età dei diritti, Einaudi, 1990

[7] Sentenza nr. 186/2020 https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2020:186

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