E ora dove andiamo? Dal Politecnico sotto assedio alle barricate: Hong Kong una città ribelle.


 

Non accenna a diminuire la tensione per le strade di Hong Kong, dopo notti di stallo e feroci scontri fra manifestanti asserragliati nel PolyU e forze di sicurezza. Nel frattempo l’Alta Corte ha dichiarato incostituzionale il divieto di utilizzo di maschere o altri capi d’abbigliamento per coprire il volto dei manifestanti, introdotto dalla governatrice Carrie Lam lo scorso mese, norma che aveva destato violenti polemiche. Ma da dove è partito tutto questo?


E’ noto che la miccia che ha acceso il rogo delle proteste, lo scorso Giugno, sia stato il disegno di legge in materia di estradizione. Tale disegno avrebbe dovuto facilitare l’estradizione di criminali fra Hong Kong e la Cina, ma è stato visto da molti come lo strumento nelle mani di Pechino per rafforzare la morsa ed esercitare maggior controllo sui dissidenti. Questa però è soltanto una mezza verità. La nuova legge sull’estradizione è stata ideata e proposta dalla governatrice Carrie Lam in seguito ad un omicidio avvenuto a Taiwan nel 2018, quando l’omicida, cittadino di Hong Kong, era tornato in città sfuggendo alla legge Taiwanese. Le proteste della famiglia della vittima unite alla pressione dell’opinione pubblica persuasero la Lam che una legge in materia di estradizione avrebbe reso più agevole il decorso della giustizia nel settore compreso fra Macao, la Cina e Taiwan.

E’ subito risultato chiaro il modo in cui la Cina avrebbe potuto trarre vantaggio da questa  legge, mettendo in allarme due grandi categorie della popolazione che abita il “Porto profumato”: gli imprenditori, che temevano l’ingerenza fortemente illiberale di Pechino nei loro affari cittadini e gli attivisti critici nei confronti del Governo cinese che temevano di essere giudicati in base alle leggi, sicuramente più rigide, del diritto della Repubblica Popolare.

Ma le ragioni delle proteste sono sicuramente più profonde e radicate, ed esulano dal malcontento generato dalla legge sull’estradizione, che si è rivelata soltanto la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso.

In primo luogo va sottolineata la sempre più pressante ingerenza politica della Cina negli affari di Hong Kong: dall’influenza esercitata sull’elezione del Governatore, alle pressioni sul parlamento, il potere di Pechino si configura come un vero e proprio Governo ombra che regge le sorti della città.

In secondo luogo ragioni di tipo sociale ed economico hanno portato alla luce le forti disuguagliante fra la popolazione della città, facendo assumere alle proteste connotati sicuramente più vasti: dopo circa tre mesi di contestazioni, particolarmente violente e distruttive, la Governatrice Lam il 23 ottobre ha ritirato la proposta di legge sulle estradizioni in Cina. Tale ritiro non ha coinciso con un affievolirsi delle contestazioni, bensì con una loro recrudescenza. Le rivolte successive hanno messo in discussione i rapporti politici fra la ex colonia britannica e il governo di Pechino, col risultato di mettere in crisi anche la “governance” cinese sulla città e mettendo in discussione il modello politico tanto caro a Pechino di  “Una nazione, due sistemi”. Se questo modello politico viene messo in crisi, viene messa in crisi anche la pianificazione geopolitica della Repubblica Popolare cinese per i prossimi decenni che vede come prossimo tassello Taiwan o le isole Paracel (contese con la Federazione russa).

Dal 1977, anno in cui Hong Kong passa dalle mani di Londra a quelle di Pechino, la città è stata teatro di numerose proteste, tutte scaturite da una forte insoddisfazione verso la Cina: nel 2003 la popolazione della città ha contestato un disegno di legge che limitava di molto le manifestazioni di sentimenti anti-cinesi, col risultato di farne slittare la data di approvazione (che ad oggi non è ancora entrato in vigore). Nel 2012 viene proposta una riforma dei programmi scolastici nel tentativo di dar loro un’impostazione “pro-cinese“, anche tale provvedimento viene osteggiato dalla popolazione e il governo locale decide di non calcare la mano. Nel 2014 si è avuto il movimento “Occupy central”, anche detto Rivoluzione degli ombrelli, che chiedeva l’elezione del Governatore della città a suffragio universale. Oggi il movente delle rivolte non è l’applicazione di principi democratici spiccatamente occidentali, ma i contrasti derivati dall’eccessiva polarizzazione della ricchezza nello scenario cittadino. Il salario medio è decresciuto del 10% rispetto a venti anni fa, Hong Kong subisce da anni una vera emorragia di giovani laureati che emigrano nel tentativo di trovare migliori condizioni lavorative all’estero, il gettito fiscale per l’amministrazione cittadina è molto basso, dal momento che molto basse sono le tasse, nel tentativo di attrarre gli investimenti esteri, ciò mette la pubblica amministrazione nella condizione di non poter destinare sufficienti fondi ai servizi di base (scuole, ospedali, infrastrutture).

Esiste poi una vera e propria emergenza abitativa, data dal costo esorbitante degli immobili,(un bilocale nel centro di Hong Kong costa mediamente più del doppio del suo equivalente nel centro di New York) che costringe quasi la metà della popolazione cittadina a vivere in alloggi concessi dal governo.

 Il Coefficiente di Gini, l’indicatore della polarizzazione della ricchezza in un paese, è per Hong Kong uno dei più alti del mondo, ed è qui che si snoda il vero punto politico della questione: lottare per la “Democrazia” ad Hong Kong, come in altre parti del mondo, significa lottare contro le diseguaglianze sociali ed economiche, o in definitiva, per un Welfare efficiente.

La Cina ha finora trattato Hong Kong con la stessa politica accentrativa con cui ha monitorato le sue regioni calde, dal Tibet alla Manciuria, politica accentrativa che si è radicata dopo il collasso inglorioso dell’Unione Sovietica e che ha reso evidente agli occhi di Pechino come ulteriori prese di posizione da parte dei manifestanti ed ennesime concessioni da parte del Governo di Hong Kong non possano che tradursi nella messa in discussione dello Stato e del Partito. Va sottolineato però come la posizione della Cina non  sia delle più favorevoli, dal momento che la sua economia è  fortemente dipendente dal giro d’affari rappresentato dal “Porto profumato” l’unico polo commerciale del Paese aperto ai flussi finanziari globali. Hong Kong rappresenta anche un crocevia nevralgico dell’ export cinese (che non viene superato, in termini di traffico merci, nemmeno dai poli commerciali di Shanghai e Shenzen),  ecco perché, ad oggi, il Governo della Repubblica Popolare non ha ancora scelto di intervenire col pugno di ferro nel tentativo di sedare le proteste in città: reprimerle con decisa risolutezza significherebbe distruggere, con le proprie mani, il principale crocevia economico del Paese, oltre che sancire l’inevitabile tramonto della dottrina dell’ “un paese due sistemi”.

L’utilizzo della forza diventerebbe un’opzione concreta solo se le proteste dovessero propagarsi nella Cina continentale, ipotesi per la verità improbabile dal momento che la popolazione della Repubblica Popolare è fortemente critica nei confronti dei manifestanti che vengono additati sui social come dei separatisti ingrati, viziati dal benessere economico e troppo concentrati sulle libertà individuali piuttosto che sulla crescita economica.  Le rivolte di Hong Kong, dunque, sono anche uno scontro fra comunità culturalmente e politicamente diverse. La popolazione di Hong Kong vive in un ambiente liberale dove sono tutelate le libertà civili e dove è garantito libero accesso ad internet, contrariamente alla Cina dove la popolazione non spinge per una democratizzazione del sistema politico, dove la gente crede nel Partito, nello sviluppo economico e nella stabilità. Si capisce come la contrapposizione fra la Cina e Hong Kong sia profonda, strutturale e quasi inconciliabile e come non sia bastata la revoca di una singola, odiata, legge per colmare la distanza.

Altro aspetto difficile da prevedere sarebbe il peso che potrebbero avere le proteste all’interno delle altalenanti relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti che fino ad oggi si sono limitate a simmetrici provvedimenti economici ma che non hanno mai sfiorato il tema dei diritti umani. Se Donald Trump volesse giocare la carta della violazione dei diritti umani ad opera delle forze di sicurezza per sedare le rivolte, la cosa potrebbe sortire effetti inattesi nelle relazioni fra i due colossi con esiti di non semplice previsione.

Fabrizio Tralongo

 

Per approfondire:

http://www.limesonline.com/hong-kong-una-cina-in-bilico-il-nuovo-numero-di-limes/114592

https://www.bbc.com/news/world-asia-china-49317695

https://www.theguardian.com/world/gallery/2019/nov/18/hong-kong-protesters-clash-with-riot-police-in-pictures

https://www.thesun.co.uk/news/9277040/hong-kong-protests-happening-riots-latest/

 

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