Questo articolo è un estratto della tesi intitolata “Pluralismo religioso nella nuova Italia multietnica e multiculturale, possibile modello per l’integrazione”, scritta da Pietro Maria Pio Durante e avente come relatore il professore Claudio Rossi, docente di Sociologia delle migrazioni presso l’Università Sapienza di Roma, dove si cerca di indicare una riflessione sull’approccio alla pessima gestione o non gestione dei flussi migratori e della presenza immigrata in Italia, tra disinteresse, ignoranza del Nuovo Pluralismo Culturale e di come quest’ultimo influenza obbligatoriamente e necessariamente la nostra società e la mancanza di concessione dei diritti necessari ai nuovi ospiti. Questo articolo si propone di elencare le possibili soluzioni al problema centrale della trasformazione della società multietnica e multiculturale, ovvero il processo di integrazione, per permettere a tutti di trarne il massimo vantaggio e affrontare il tutto in una convivenza volta al bene comune.
Comunità religiose in Italia
La differenziazione religiosa in Italia non è solo quantitativa, ma anche qualitativa; infatti, le varie religioni che incontriamo nel fitto panorama del nostro paese si influenzano vicendevolmente, si sovrappongono e mutano. Inoltre, bisogna fare una distinzione tra praticanti e non praticanti, che banalmente non riguarda solo la religione cattolica e cristiana, ma quasi tutte le religioni. Quindi, eseguire una determinazione esatta delle appartenenze religiose non è semplice.
In Italia, agli inizi del 2020, la maggioranza assoluta, ovvero il 51,9% di 5,3 milioni di residenti stranieri, è cristiana, un terzo, ovvero il 33,2%, è musulmano e il 4,8% è ateo o agnostico. Il resto delle percentuali, si divide in maniera frammentaria tra buddisti, induisti, ebrei, e altre religioni minori.[1]
Analizzando il cristianesimo professato dai residenti stranieri prevale la componente ortodossa che copre il 28,9% dell’intera presenza in Italia, a seguire vi sono i cattolici che consistono nel 17,7% degli stranieri e infine i protestanti che rappresentano solo il 4,4%.[2]
Tra i cristiani, i tre quarti, quindi il 74% sono europei, di cui i comunitari sono il 55,2% e i non facenti parte dell’Unione europea sono il 18,9%. Ovviamente, la provenienza influisce sensibilmente sulle specifiche confessioni, per fare degli esempi: tra gli ortodossi, gli europei sono il 97,6%, mentre per i cattolici, sono soltanto il 42,6%, dando spazio agli asiatici che rappresentano il 17,8% e ai sudamericani che hanno un peso del 33,2%, citando anche i protestanti che hanno una rappresentanza europea pari al 55,5%.[3]
Mentre tra i musulmani prevalgono gli africani, il 53,6% del totale, con i marocchini che risultano essere il 24,3% degli immigrati appartenenti a tale religione; seguono gli europei con un 26,1% e concludono gli asiatici che rappresentano il 19,6%.[4]
Un panorama così variegato che ha reso l’Italia la protagonista di un vero e proprio “Nuovo Pluralismo Religioso” (NPR). Termine che ci deve porre all’attenzione del fatto che bisogna far emergere “una rete fatta di persone, diritti, convivenza, integrazione, luoghi di culto e di incontro, formazione, lingue e assistenza; ma anche pericolo di ghettizzazione, separazione e integralismi.”[5] Il tema che ci accomuna è quindi quello alla lotta alle disuguaglianze, partendo dal concetto che nessuno resti indietro, agendo e collaborando per mantenere un tessuto sociale attraverso tutti i luoghi sociali e di culto, che rappresentano non solo luoghi fisici ma anche relazionali.
In questo Nuovo Pluralismo Religioso, le comunità religiose possono svolgere un ruolo chiave per i processi di integrazione, di promozione della legalità e di contrasto al radicalismo, sono inoltre delle risorse per rafforzare la coesione sociale e favorire la costruzione di una società multiculturale.
In altre parole, l’identità religiosa è una risorsa fondamentale e interiore di resilienza che permette agli immigrati di resistere al loro percorso migratorio e di ricostruire una nuova vita in un nuovo contesto.
La strutturazione in “comunità religiose”, associazioni e reti finalizzate al culto, definisce dei recinti che promuovono la socialità e l’integrazione di conseguenza. Una comunità religiosa è necessariamente un sistema di relazioni che garantisce dei servizi essenziali, ad esempio l’istruzione dei giovani al credo, la gestione degli spazi pubblici per il culto, il sostegno ai poveri e tanto altro. Questo atteggiamento può seguire due percorsi distinti e separati: può favorire l’incontro con la comunità di accoglienza, oppure può creare e alimentare forme comunitaristiche estreme causando gravi effetti sociali. Sta alla gestione politica attuare delle misure che orientino i comportamenti all’incontro e al dialogo interculturale e interreligioso.
La gestione del “Nuovo Pluralismo Religioso” in Italia
L’Italia ha tutti i presupposti, sia a livello sociale che giuridico, per favorire un buon processo integrativo. Il nostro paese è riuscito ad evitare la cosiddetta “ghettizzazione” degli immigrati in quartieri marginali e periferici, parlando in ambito sociale, mentre a livello giuridico, il Bel Paese dispone di norme che nella teoria consentono il riconoscimento pubblico delle comunità di fede e il loro coinvolgimento nelle politiche interculturali e interreligiose. Purtroppo, la pratica non va di pari passo con la teoria, dato che alcune tra le comunità più numerose non godono di alcun riconoscimento. Questo divario non permette di valorizzare gli strumenti normativi esistenti per promuovere percorsi di integrazione, ma in opposizione finisce per alimentare percorsi religiosamente autoreferenziali. Vi sono delle eccezioni a livello locale, dove vi sono dimostrazioni di pratiche di incontro interculturale e interreligioso. Un esempio documentato è il festival Dòsti di Brescia che avvicina tra di loro le diverse comunità di fede rendendoli epicentro del già citato Nuovo Pluralismo Religioso.
In occasione della pandemia si è evoluto il cosiddetto dialogo interreligioso, poiché le istituzioni hanno chiesto aiuto alle comunità religiose per il contenimento dei contagi. Alla dimensione spirituale si aggiunge quella laica e sociale, quest’ultima punta alla collaborazione tra le diverse comunità per ottenere obiettivi civici comuni. Infatti è grazie alle comunità religiose che si può essere presenti anche nei quartieri periferici e degradati e quest’ultime possono assumersi delle responsabilità sociali. In tutto questo, i ministri di culto delle varie comunità svolgono il ruolo chiave di mediatori, facilitando il rapporto tra il gruppo di riferimento e gli altri.
Per permettere che tutto ciò che abbiamo descritto avvenga nel migliore dei modi, vi è bisogno di un indirizzo politico che al momento si intravede soltanto e che non è sostenuto come dovrebbe essere. All’inverso, partiti e ideologie politiche costruiscono il loro consenso elettorale ponendo pregiudizi e discriminazioni nei confronti di alcune comunità di fede e andando contro l’articolo 8 della Costituzione italiana. Avviene un discorso paradossale: mentre ci si attacca alla propria religione (nel caso italiano, quella cattolica e cristiana), si inveisce contro le altre e si alimenta un conflitto culturale che compromette la coesione sociale risultando in una frammentazione identitaria.
Prendere atto e coscienza del Nuovo Pluralismo Culturale ci suggerisce che “non siamo di fronte a una minaccia all’identità nazionale ma, al contrario, a una risorsa che può qualificare e arricchire una società ormai realmente multietnica e multireligiosa come quella italiana.”[6]
Pietro Maria Pio Durante
[1]A. Silvestrini, M. Albani, L. Di Sciullo, L. Gaffuri, M. P. Nanni, P. Attanasio, C. Paravati, P. Naso (2020), Dossier Statistico Immigrazione, Centro Studi e Ricerche IDOS in partenariato con il Centro Studi Confronti, Roma, 2020, p. 231
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Ivi, pp. 231-232
[5] Ivi, p. 233
[6] Ivi, p. 237