Yes we can? Yes we did. L’ultimo Obama



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Barack Hussein Obama


I discorsi inaugurali e quelli di saluto dei presidenti degli Stati Uniti sono un genere letterario a sé stante che raccoglie la storia, la cultura e l’immaginario statunitense esaltando le costanti qualità morali, la resilienza, l’unicità e l’eccezionalità del sogno e del modello americano. Quando un presidente pronuncia un discorso di inaugurazione guarda al futuro della sua carriera politica e a quello che promette di realizzare negli anni alla Casa Bianca. Al contrario, il presidente uscente di solito approfitta del suo ultimo saluto per guardare al passato e ricucire in un’ultima narrazione gli anni del proprio mandato sottolineando, per futura memoria, i traguardi raggiunti.

A nove giorni dall’inaugurazione del presidente eletto Donald Trump, il presidente uscente Barack Obama sceglie Chicago – città che ha lanciato la sua carriera politica – per salutare il paese. Di fronte ad una folla di circa 20 mila persone che lo accoglie calorosamente, il presidente Obama risponde: “Hello Chicago, It’s good to be home”. A Chicago infatti, il giovane Barack Hussein Obama, intraprende la strada dell’attivismo politico che lo porterà a diventare nel 2008 il primo presidente afro-americano nella storia degli Stati Uniti.

Sempre a Chicago, nel 2008 e nel 2012, Obama celebra l’esito positivo delle elezioni che lo portano a ricoprire l’ufficio più alto della democrazia americana. Nel “farewell address” Obama celebra la lunga tradizione dei valori e dei principi alla base della democrazia statunitense, la ripresa economica nonostante le difficili premesse con cui ha avuto inizio il suo mandato, difende il lavoro svolto in ambito sociale per assicurare alle fasce di reddito più vulnerabili l’accesso all’assistenza sanitaria, e, infine, rivendica il riconoscimento di maggiori diritti civili e il rifiuto di ogni discriminazione sia essa basata sull’orientamento sessuale, il colore della pelle o il credo religioso.

Sebbene definisca in tono ottimistico lo stato di salute del suo paese, il presidente uscente ha colto quest’ultima occasione per mettere in guardia i suoi “fellow americans” sulla minaccia che una politica insensibile alle disuguaglianze, elitaria e discriminatoria sul piano economico e sociale potrebbe rappresentare per la democrazia americana. Ha riconosciuto, da un lato, i passi in avanti fatti della società americana nei confronti delle minoranze ma, dall’altro, ha definito la questione razziale e la polarizzazione su posizioni xenofobe e razziste come la seconda minaccia alla democrazia americana.

Sotto il profilo della politica estera, nel suo testamento presidenziale Obama iscrive l’apertura di un nuovo capitolo nei rapporti con Cuba, l’accordo sul nucleare con l’Iran, la fine di Bin Laden e la ratifica dell’accordo di Parigi sul cambiamento climatico. E’ sulla democrazia, sul rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto tanto negli Stati Uniti come nel mondo che, tuttavia, Obama ritorna con insistenza, forza e carisma nel suo ultimo saluto.

Mette, infatti, in guardia sulla necessità di essere tolleranti nei confronti delle disuguaglianze, vigili di fronte ai pericoli del terrorismo e risoluti contro ogni forma di autoritarismo. Con accenni ad analogie storiche, Obama ricorda quale sia il rischio per gli Stati Uniti e la sicurezza internazionale di lasciare proliferare regimi autoritari e forze nazionalistiche nel mondo. Riconoscendo che sono attualmente in moto queste forze, Obama sottolinea la necessità di definire un ordine globale sulla base di principi di libertà, uguaglianza e solidarietà. Sullo stato di diritto e non sulla legge del più forte.

Dopo aver definito la Russia e la Cina entrambe con il termine “rivali”, Obama avverte il rischio per gli Stati Uniti di diventare “un’altra grande nazione che fa bullismo sugli Stati più piccoli”. Invita pertanto a non dare per scontato il traguardo della democrazia perché è proprio quando questa viene data per scontata che è maggiormente in pericolo. Concludendo il pensiero di Obama si rivolge alla classe politica per ricordare l’importanza di una dialettica costruttiva ed, infine, agli americani affinché andando oltre il dibattito virtuale sui social media esercitino il loro ruolo di cittadini in modo attivo.

Il discorso di Obama ha mirato a lasciare un segno del proprio stile e del proprio esempio democratico rivolgendosi, senza mai farne il nome, al presidente eletto Trump a cui spetterà dal prossimo 20 gennaio far conoscere al mondo il suo stile presidenziale.

Il primo Obama del 2008 incantò l’America con il motto “Yes We Can”, l’ultimo Obama ha salutato l’America con “Yes we did”.

A cura di Giorgio Grosso

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