Turchi e Curdi: un secolo di precario equilibrio


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 Turchia e Curdi: un secolo di precario equilibrio

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La situazione che sta profilandosi negli ultimi tempi, che ha portato alla totale rottura nei rapporti tra il popolo curdo e il governo turco, è frutto di una serie di avvenimenti storici che possiamo collocare già all’inizio del XX secolo quando successivamente alla fine della Prima Guerra Mondiale e alla disgregazione dell’impero Ottomano, iniziava il processo di formazione dello stato-nazione turco ad opera del movimento nazionalista guidato da Mustafa Kemal, conosciuto come Ataturk “il padre dei turchi”. Alla ridefinizione dei nuovi confini infatti la popolazione di etnia curda, che fino a quel momento aveva vissuto all”interno dell’impero Ottomano, si ritrovò priva di un proprio stato e rilegata all’interno dei confini turchi senza neppure essere riconosciuta come minoranza etnica. Di lì ad oggi i conflitti che hanno avuto come protagonisti il popolo curdo, con le proprie rivendicazioni di matrice politica e culturale, e i governi turchi succedutisi nel tempo, furono numerosi e sanguinosi. In particolare le istituzioni politiche turche non vollero mai riconoscere i curdi come attori politici con cui affrontare un dialogo di pacificazione ed altresì cercarono di emarginarli proibendogli l’uso delle proprie lingua e tradizioni. Dall’altra parte la popolazione curda, a partire dagli anni ’80, si strinse attorno a quella che ancora oggi è l’entità politica di maggior rilevanza, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e al suo fondatore Abdullah Ocalan . In un primo momento il partito mirava alla costituzione di uno stato indipendente, conformemente alla matrice ideologica di influenza marxista-leninista che fino a quel momento aveva assunto. Fu in questi anni che si raggiunse l’apice del conflitto, il bilancio dopo una serie di scontri e violenze tra esercito turco e i militanti del PKK fu disastroso. Il clima di tensione, che caratterizzò gli anni’90, culminò con l’arresto del leader e fondatore del PKK. In seguito alla condanna all’ergastolo di Ocalan, nel 2002, il popolo curdo, strettosi ormai interamente attorno al PKK, abbandonò le rivendicazioni di indipendenza statale, in favore della richiesta di un’autonomia amministrativa seppur all’interno dei confini turchi, cercando di mitigare il conflitto tramite un tentativo di negoziazione politica di pace. Questo nuovo atteggiamento del PKK, che aveva ormai abbandonato l’influenza marxista-leninista, sembrava ottenere riscontri positivi dalla controparte turca, nella figura di Recep Tayyp Erdogan, leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), il quale si dimostrò inizialmente ben disposto all’apertura di un dialogo. Erdogan necessitava del consenso dei curdi fondamentalmente per due ragioni: 1) una parte consistente del suo elettorato era rappresentata proprio dalla fazione conservatrice curda di fede sunnita; 2) la necessità di tentare di appianare la questione curda per avviare quei processi di democratizzazione e diffusione dei diritti umani che avrebbero permesso al governo turco di mettersi in buona luce nei confronti dell’UE, per un possibile futuro ingresso nella comunità. Grazie a questa linea politica, il leadear dell’ Akp è riuscito ad affermarsi per tre tornate elettorali consecutive con percentuali sempre crescenti. Quando invece cessarono i negoziati di pacificazione con il PKK, l’Akp subì di anno in anno un calo sempre maggiore di consensi, fino a perdere la maggioranza assoluta alle elezioni del giugno di quest’anno. Complice della disfatta anche la nascita del Partito democratico dei popoli (Hdp), un partito curdo che si batte per l’uguaglianza dei diritti politici della minoranza etnica e che è riuscito nell’imprese di superare la soglia di sbarramento necessaria per l’ingresso nel parlamento turco (fissata al 10%), ribaltando sorprendentemente ogni sondaggio. A seguito delle elezioni, preoccupatosi della legittimità crescente che i curdi hanno dimostrato con i numeri espressi dalle urne, Erdogan ha iniziato una campagna di demonizzazione mediatica del PKK e dei militanti curdi, cercando di trovare dei nuovi alleati politici in vista delle prossime elezioni nei partiti nazionalisti di estrema destra. In quest’ottica il presidente Erdogan, che ha comunque mantenuto un’ esigua maggioranza in parlamento, si è proposto alla NATO come protagonista nella lotta all’avanzata fondamentalista dello Stato Islamico in Siria. In realtà però la Turchia ha approfittato del consenso dell’occidente per far rientrare nei termini di questa lotta al terrorismo anche l’eliminazione del PKK, che, approfittando della crisi siriana, è riuscito ad ottenere larghi margini di autonomia e riconoscimento politico in quel territorio. Da questo momento è ripartita quell’escalation di arresti e di repressione che si era interrotta nel decennio precedente con i tentativi di pacificazione proposti da Ocalan. All’inizio del mese le truppe turche hanno attraversato il confine con l’Iraq nell’ambito di questa operazione cosiddetta “antiterrorismo”. Alla fine di luglio la Turchia ha cominciato a bombardare le postazioni del PKK contemporaneamente all’inizio delle azioni contro lo Stato Islamico in Siria. Il PKK ha risposto con una serie di attentati che hanno colpito poliziotti e soldati. Arenatasi dunque la possibilità di una decisione che possa mettere d’accordo le parti, le prospettive di una soluzione pacifica della questione curda sembrano complicarsi, rischiando di vanificare del tutto gli sforzi che da circa un secolo il popolo curdo ha compiuto nel tentativo di raggiungere quell’ ”autodeterminazione” che vorrebbe aver riconosciuta dalla comunità internazionale.
Simone Cacioppo
Ha collaborato all’articolo Giovanni Tranchina

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