Una fossa comune in fondo al Mediterraneo: Europa complice?


– EDIZIONE STRAORDINARIA –

Una fossa comune in fondo al Mediterraneo: Europa complice?
Ancora una volta, il Mediterraneo teatro di una tragedia dagli aspetti forse catastrofici. Si parla di circa 900 migranti morti, una cifra che, se dovesse trovare conferma, rappresenterebbe sicuramente la più grande tragedia di vite umane nella storia dell’immigrazione. L’I.ME.SI ha voluto dedicare una edizione straordinaria alla recente tragedia occorsa dinanzi alle coste libiche, con un articolo che affronta la questione da un punto di vista giuridico-internazionale, geopolitico, del diritto europeo e da un punto di vista filosofico.
Abbiamo chiesto a ciascun Dipartimento, di esprimere al riguardo una breve considerazione.
Il Dipartimento Studi Giuridici Imesi, evidenzia: “ Ma cos’è la democrazia? Dov’è la democrazia? L’Europa, promotrice dell’uguaglianza e dei diritti civili, diventa d’un tratto miope davanti al tema immigrazione, di interesse, in primis umano ma anche e soprattutto di natura giuridica e politica. Il diritto alla vita viene violentato al largo delle coste, insito nel quale vi sono la libertà di scelta, che si annulla sotto le costrizioni dei trafficanti che con minacce verbali e uso di armi costringono gli individui ad imbarcarsi. Bisogna chiedersi a cosa è servito approvare le varie Carte, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo dell’Onu nel 1948, la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nel 1950 e la Carta dei Diritti fondamentali dell’UE nel 2000? Chi si trova in mare in una situazione di pericolo deve essere soccorso e portato al sicuro secondo quanto previsto dalle molte convenzioni internazionali sul diritto del mare, indipendentemente dal fatto che sia o meno in possesso di documenti validi, e nella fase di accoglienza deve essere garantito il rispetto di quei diritti fondamentali, su tutti, “il divieto di trattamenti inumani e degradanti” e il diritto dell’habeas corpus, che la costituzione e la convenzione europea dei diritti dell’uomo pacificamente riconoscono a tutti gli esseri umani, cittadini e stranieri, regolari e irregolari. Si sente tanto parlare di diritti umani e poi si permette che tanti umani debbano morire perché desiderano una vita migliore. L’art 5 della Carta di Nizza ribadisce il divieto di tratta degli esseri umani. Non è forse quello cui assistiamo ogni giorno?”.
Mentre, da un punto di vista geopolitico il Dipartimento Studi Politici Imesi sottolinea: “ la situazione economico-politica in cui versa la Libia dalla caduta del governo Gheddafi, avvenuta il 20 Ottobre 2011, ad opera dei ribelli del CTN (Consiglio Nazionale di Transizione), è a dir poco disastrosa. Se infatti per anni si è assistito ad una fase di stallo in cui le lotte intestine fra i due governi paralleli (a est, quello più laico “esiliato” a Tobruk di Abdullah al Thani e a Ovest, a Tripoli, quello “ombra” di Ansar al Sharia) si sono avvicendate senza garantire un’unica stabilità, oggi la popolazione civile non è più disposta a soffrire e cerca ausilio sui barconi, intraprendendo il cosiddetto viaggio della speranza per raggiungere le nostre coste. I migranti, cercando di ottenere una vita più sicura e migliore, agiscono anche contro la legge, divenendo così dei migranti irregolari. Sprovvisti di uno status regolare transitano o cercano ospitalità in paesi che non sono quelli di origine. Questo fenomeno è oggi talmente cresciuto nell’area del bacino mediterraneo, che non si parla più di immigrazione ma di tratta di esseri umani. O almeno, è ormai comunemente percepito come un commercio illegale: un settore con numerosi attori, al servizio di una gerarchia ben consolidata (dagli smuglers ai rais) e provvista di numerose basi e mezzi per organizzare la tratta. Non conta che le malcapitate vite siano di provenienza libica, per la maggior parte esse giungono da Somalia, Siria, Eritrea, Africa sub-sahariana ed altre regioni limitrofe. E questo è un dato nient’affatto indifferente che lascia presagire quanto il problema tocchi non una sola regione ma tutto quanto il Nord Africa. In realtà vi era stato un vano tentativo da parte del CNT di Bengasi di elaborare, fin dalle prime fasi della guerra, una nuova Carta Costituzionale che avrebbe dovuto assicurare al Paese la transizione verso la democrazia. Si trattava di una Costituzione leggera di soli 15 articoli che raccontava la Libia come un territorio indivisibile con Tripoli capitale. Ciò preannunziava come la separazione tra Tripolitania e Cirenaica non fosse un’opzione tenuta in considerazione dai ribelli, anche se gli eventi dopo la caduta del regime dimostrarono un sentimento di unità nazionale ancora fragile ed un regionalismo emergente. Due sono gli elementi che da tale Carta occorre estrapolare per comprendere il potenziale profilo della nuova Libia: il primo è dato dall’enfasi con cui l’Islam è proclamato religione di Stato e la Shari’a indicata come fonte della legislazione; il secondo elemento meritevole di attenzione è desumibile dall’articolo 4 che sottolineava l’esigenza di garantire l’equa distribuzione della ricchezza nazionale tra i cittadini e tra le diverse città e regioni dello Stato. La storia di questi ultimi anni ha dimostrato come all’Unione Africana manchino gli strumenti adatti a rimettere in piedi il Paese, seguita non tanto lontanamente dall’Unione Europea (ancora oggi priva di una politica estera realmente concreta). Mentre il nostro Premier Matteo Renzi, in consorzio con il Presidente degli Stati Uniti Obama, delibera in questi giorni di non voler intervenire militarmente, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si era già riunito, alla fine di questo Febbraio, per una seduta pubblica dedicata alla Libia. Da questa emergeva che, volendo evitare gli stessi errori degli anni 2000, difficilmente si arriverà ad un intervento militare. Come risolvere dunque la questione per via diplomatica? Bernardino Leon, rappresentante ONU per la crisi libica sostiene che la strada da percorrere implichi un accordo politico tra le fazioni che dividono il potere con l’obiettivo di arrivare all’istituzione di un governo unito; si potrà poi sconfiggere il terrorismo grazie ad un sostegno forte della comunità internazionale. Anche Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sulla stessa linea di pensiero del diplomatico spagnolo, è intervenuta sul finire di Marzo a Bruxelles sulla questione libica sostenendo, prima del summit coi 34 sindaci e leader locali del paese nord africano, che gli interventi militari non siano la soluzione; sottolineava anzi l’importanza della creazione di un governo di unità nazionale atto a favorire la nascita di un fronte comune tra le fazioni libiche decise a combattere insieme il Daesh, traducibile come stato islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). Lo stesso Leon, in linea con le precedenti dichiarazioni rilasciate, aggiunge che la composizione del governo unito prevede un Presidente e un Consiglio presidenziale composto da personalità indipendenti, che lo stesso non sia appartenente ad alcun partito o affiliato ad alcun gruppo e che sia accettabile per tutte le parti e tutti i cittadini libici.Sarebbe di fondamentale importanza che la comunità internazionale agisse da mediatore. Essa dovrebbe cioè definire un tavolo negoziale attraverso il quale giungere a un accordo di unità nazionale, favorendo la costituzione di un governo e una road map politica condivisa da tutte le forze. La Libia, dopo la dominazione coloniale, un breve periodo monarchico e oltre 40 anni di dittatura personale di Gheddafi, non deve essere ricostruita, ma costruita”.
Il Dipartimento Studi Europei Imesi, evidenzia, invece, le limitatezze dell’operazione Triton di Frontex: “il Mar Mediterraneo continua irrimediabilmente ad essere la sola destinazione finale degli ormai innumerevoli viaggi della speranza intrapresi da migranti e rifugiati. L’ennesimo naufragio, verificatosi nel Canale di Sicilia nella notte del 18 Aprile, ribadisce che non è più ammissibile riferirsi alla questione immigrazione definendola “emergenza” ma che al contrario risulta doveroso riconoscerle la fattispecie di crisi umanitaria. Nella giornata di domenica la Guardia Costiera dà notizia del rinvenimento di 24 cadaveri e 28 superstiti. Un uomo originario del Bangladesh ha riportato la sua testimonianza sul fatto, riferendo che le persone a bordo erano addirittura più di 900, circa 200 donne e 50 bambini, e che provenivano da diverse nazioni, tra cui Algeria, Egitto, Somalia, Senegal, Zambia e Ghana. Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHRC), ha dichiarato inoltre che il numero delle vittime costituirebbe una “ecatombe mai vista” e che una tragedia come questa non fa altro che rafforzare la necessità di “un’operazione Mare Nostrum europea”. É proprio su questo punto che gli animi si scaldano e iniziano a sollevarsi numerose critiche, a partire dal Primo Ministro Matteo Renzi che durante una recentissima conferenza stampa alla quale presenziava anche il Ministro dell’Interno Alfano, ha dichiarato che “bloccare il traffico di esseri umani non può essere considerato un problema di serie B per l’Unione Europea”, aggiungendo infine che l’Italia chiede di non essere lasciata sola nell’affrontare la crisi umanitaria dell’immigrazione. Ha sicuramente ben ragione di utilizzare tali termini in quanto, è doveroso ricordarlo, la già citata Mare Nostrum, nata a seguito del tragico naufragio di Lampedusa del 2013, era un’operazione esclusivamente italiana, dunque non supportata dall’Unione Europea o da altri Stati membri. In quell’occasione il governo Letta decise di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando tale missione, militare ed umanitaria, i cui obiettivi principali erano due: garantire la salvaguardia della vita in mare, dunque prestare soccorso ai migranti, ed arrestare gli scafisti, spingedosi fino a ridosso delle coste libiche. La missione che, come affermato dal Ministro Alfano, in un anno permise 558 interventi in mare, con 100.250 persone soccorse e 728 scafisti arrestati, fu pagata dall’Italia a caro prezzo: 9,5 milioni di euro al mese, senza alcuna contribuzione europea. Dal 1° Novembre 2014, quindi da appena 5 mesi fa, Mare Nostrum è sostituita da Triton, missione a carattere prettamente europeo finanziata da Frontex, Agenzia Europea delle Frontiere, che finalmente sembra sollevare l’Italia dal gravoso onere di contrasto all’immigrazione clandestina: ciò che l’Europa non ha esplicitato è come questa operazione, invece di ampliare il controllo e la lotta ai flussi migratori, abbia in realtà ridotto il suo mandato a mero controllo delle frontiere, ritenendo quindi eccezionali gli interventi di ricerca e soccorso. Le navi Frontex si mantengono infatti entro le 30 miglia dalle coste italiane senza spingersi verso le coste libiche come invece accadeva con Mare Nostrum. Minore impiego di forze significa conseguentemente budget ridotto, che in effetti si attesta mensilmente sui 2,9 milioni di euro e di conseguenza ciò comporta innegabili limiti di azione”.
Amara la conclusione di Massimo Parisi, Direttore Dipartimento Studi Storici e Filosofici Imesi: “ è opportuno, dunque, riflettere sulla non- sostenibilità politica di alcune proposte, che, nell’ottica di chi le promuove, parrebbero indicare una sommaria soluzione alla fenomenologia negativa del flusso migratorio, ma nulla aggiungono in merito a una strategia di incremento qualitativo dell’ accoglienza in Sicilia e in generale della macchina umanitaria nel Mediterraneo, strategia che invece molto significherebbe in termini di probabilità di sopravvivenza per chi prende il Canale di Sicilia dalle coste del Nord Africa. Il blocco navale infatti è profuso ad libitum dalle bocche di autorevoli esponenti politici italiani, come rimedio per scongiurare definitivamente il versamento di vite umane al mare. Già a un livello intuitivo è facile sollevare qualche dubbio sulla logica cui tale proposta sottende : come si sposa infatti la necessità di prevenzione e gestione del flusso migratorio con l’operazione militare che il blocco navale rappresenta? In che rapporto stanno le parole soccorso, salvataggio, emergenza umanitaria e blocco navale? In cosa risiede l’utilità di chiamare i migliori professionisti del pulito con l’intento implicito di nascondere la polvere sotto al tappeto ? Se è vero infatti che il blocco navale impedisce che il natante prenda il largo alla volta dell’ Unione Europea , risparmiandogli il rischio di avarie e naufragi, nulla è la sua capacità di incidere nella fase terrestre della diaspora, ove le atrocità si consumano per la massima parte. Il blocco navale relega il migrante alla terraferma da cui fugge : gli salva la vita dallo scafista e la consegna alle sorti incerte del deserto, ai colpi di mortaio, alle rappresaglie. Una composizione della questione migratoria riportata alla luce in maniera così brutale e drammatica conduce ad indagare non già la provenienza del migrante, la causa della sua odissea, e le origini della violazione dei diritti umani che lo spinge ad abbandonare la terra natia : tali quesiti trovano una risposta nell’opera dei volontari, nelle cronache di guerra, nella propaganda dissennata dei nuovi regimi, nelle parole delle vittime, delle donne e degli uomini che sopravvivono. Non già l’identità del migrante, dunque, quanto piuttosto l’identità di chi, al di qua del Canale di Sicilia, lo attende. L’interrogativo fa vacillare tanto la Rivoluzione Francese quanto l’Antifascismo. La storia dell’ Europa passa attraverso di essi : gli uomini che nella storia li hanno creati, quelli che hanno combattuto tanto con le idee quanto con le armi, hanno forgiato l’identità del Vecchio Continente, che è ormai carattere indelebile del nostro DNA civile. Ma la storia evolve in forme imprevedibili rendendo difficoltoso muoversi per affrontarne le minacce, che dal canto loro mutano incessantemente, a tal punto che la freccia del tempo, della storia stessa, univoca e inarrestabile, smette di rassicurarci. La storia dell’ Europa, nella straordinaria struttura che da sei decadi unisce invece di dividere, passa oggi attraverso la sfida della coscienza di sé e della propria identità.

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